Lavoro e schiavitù

Enrico Verga ha pubblicato su Econopoly de “Il Sole 24 Ore” una riflessione interessante sul concetto di schiavitù. Attualmente esistono vari fattori che stanno mutando in maniera radicale il rapporto uomo-lavoro: una crescente pressione sociale, una politica aziendale strutturata nell’esternalizzare tutto il possibile (ne parleremo tra poco) e una veloce digitalizzazione nell’industria (a svantaggio della forza lavoro umana, in molti settori). Quindi Verga si domanda “se non sarebbe opportuno rivalutare la schiavitù (nella sua interezza, non parlo solo di frustate) e considerare l’opportunità economica di reintrodurre tale soluzione contrattuale nell’economia moderna”.
Continua Verga, “la schiavitù è spesso vista con un’accezione negativa. Tuttavia si può notare come una larga parte della storia dell’umanità abbia visto regni, imperi e persino nazioni democratiche (con un sistema di elezioni popolari come gli stati americani) utilizzare gli schiavi per differenti mansioni e ruoli. L’abolizione della schiavitù è un fenomeno piuttosto recente. Poco più di due secoli. Tuttavia se sulla carta la schiavitù, nella sua accezione più brutale, è stata bandita, così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo”.

L’articolo riporta una chiosa di Stefano Sutti, affiliato ad uno dei più grandi studi legali d’Italia, secondo il quale “per la cultura giuridica delle istituzioni internazionali è a rischio di essere considerato in sostanza schiavitù più o meno qualsiasi rapporto di lavoro esuli dallo schema del contratto di impiego in un’azienda capitalistica a fronte di un salario, o magari dalla fornitura free-lance di servizi puntuali da un individuo a chi occasionalmente ne voglia ingaggiare i servizi. Naturalmente, queste categorie mentali prescindono completamente dalla misura della retribuzione, che si ritiene sempre più comunemente debba essere determinata dal mercato. Nulla impedisce d’altronde che il mercato, grazie anche (localmente) ad un cartello spontaneo di datori di lavoro e (globalmente) alla concorrenza internazionale e al cosiddetto dumping sociale da parte di paesi dove comunque il costo della vita è molto inferiore, possa assestarsi al di sotto del livello del livello di sussistenza per il lavoratore interessato e le persone che da lui dipendano. E se al primo problema hanno tradizionalmente fatto fronte (ma solo per i dipendenti) legislazione sociale e contrattazione collettiva, tali strumenti restano sostanzialmente spuntati rispetto, invece, alla globalizzazione”.

Quindi, già oggi, in Italia, le partite Iva risultano a rischio di schiavitù.

Perché la partita Iva non è altro che il frutto dell’ennesima esternalizzazione: come si esternalizzano i danni ambientali (le esternalità, che nessuno paga ma tutti subiscono) così si esternalizza la tutela della forza lavoro (della quale tutti parlano ma che nessuno, di fatto, vuole pagare). Così l’estensione a tutti del concetto di imprenditore – l’essere a partita Iva, si dice che non sia altro che ridiventare padroni di sé stessi e quindi imprenditori della propria forza lavoro senza intermediari – nasconde un colossale inganno. Se il diventare imprenditore suscita il pensiero di un futuro radioso, una sfida alla continua crescita economica e alla perfetta integrazione tra libertà civili ed economiche è bene ricordare il prezzo della contropartita. Essere dipendenti, quindi accettare per contratto di essere diretti da qualcun altro oppure emanciparsi, di fatto perdendo tutti i benefici che quel contratto garantiva.

Le partite Iva non hanno giorni di vacanza pagati, non hanno malattie pagate, i costi degli strumenti elettronici (cellulare, computer) sono a loro carico. Non vi sono certezze per il futuro, e il ricavo orario effettivo tende a decrescere (rispetto alla precedente posizione di impiegato assunto). Le tasse sono di fatto maggiorate e in più ci sono mutuo o affitto, cibo, costi sanitari, noli.

Ma, partite Iva a parte, ci sono anche i contratti a zero-ore: Questo tipo di contratto paga solo per le ore lavorate e per le ore che siete sul lavoro ad aspettare ma non venite pagati per il tempo che passate ad aspettare una telefonata anche se questo vi impedisce di fare altre cose. Ancora peggio alcuni di questi contratti vi impediscono di lavorare per altri, anche se non vi offrono lavoro e si aspettano che se chiamati correte subito a lavorare. Secondo molte esperienze, rifiutare di andare a lavorare, anche con poco preavviso, significa spesso perdere la precedenza e non venire chiamati subito in futuro, a livello legale un lavoratore non dovrebbe essere obbligato ad accettare lavoro, ma non sempre le regole vengono rispettate, soprattutto in industrie che hanno molti lavoratori stranieri.

Perché, quindi, non si può valutare, nei programmi politici delle prossime elezioni, una proposta di legge per reintrodurre (o esplicitare) l’istituto della schiavitù?

Verga non parla certo di un regime di violenza e pasti frugali. Si pensi ai benefit erogati da alcune grandi corporation: casa pagata, ticket pranzo, copertura sanitaria, servizio di lavanderia, asili nido. In fondo sono tutti benefit che permettono al datore di lavoro di tenere vicini a sé gli impiegati. Ma di recente un nuovo ha preso piede un nuovo percorso di esternalizzazione, anche dei benefit: si invitano i propri dipendenti a lavorare dal rispettivo domicilio. Indubbiamente ci sono vantaggi per chi ha una famiglia, ma i vantaggi maggiori, a ben guardare sono sempre per l’azienda che concede questo “lusso”.

Tra le esternalizzazioni, quella che sicuramente ha il peso maggiore per la società, è quella dei costi sanitari della precarietà. L’ansia di essere sempre disponibili, la consapevolezza di non potersi mai ammalare per non mancare mai alla chiamata, quando arriverà, del proprio datore (pardon, “donatore”) di lavoro, la violenza autoimposta di cercare la felicità nell’imponderabile (a fronte di una società novecentesca costruita sulla umana necessità della sicurezza e la programmabilità di un futuro). Che si traduce in consumo di benzodiazepine e psicofarmaci di ogni sorta e rimedi più o meno forti per vincere l’imponderabilità per eccellenza, la malattia. Non è una che, negli Stati Uniti, i decessi per overdose da Fentanyl siano 800 volte maggiori rispetto ai decessi italiani per overdose da qualsiasi droga (.

Se fossimo schiavi, in via ufficiale, potremmo pretendere dei benefit veri: nel tardo impero romano, uno schiavo aveva diritto a un alloggio, cure mediche, vitto. Molti schiavi ricevevano formazione obbligatoria e gratuita. Perché anche oggi i costi della formazione coperti dal padrone sono sicuramente un asset per il dipendente-schiavo.

Ovviamente lo schiavo, oggi come allora, dovrà concedere la sua totale disponibilità. Ma non serviranno catene fisiche, come quelle utilizzate in alcuni casi nella Storia: perché di catene ne sono state inventate di meno evidenti ma ben più efficaci. Il cellulare che le aziende donano ai propri dipendenti sono di fatto catene virtuali: autorizzano (formalmente o informalmente) l’azienda ad avere accesso al dipendente in qualunque momento, sia con mail messaggi o telefonate.

Quindi gli aspetti negativi dello schiavismo (sfruttamento, incertezza per quanto riguarda il proprio futuro, mancanza di libertà) sono già ben presenti nella classe operaia, come si diceva una volta: perché allora non obbligare le aziende a caricarsi i costi sociali e finanziari di un contratto di schiavismo?
In fondo, la prima forma di libertà è quella di dare alle cose il loro giusto nome.

Non so se la proposta di Verga, sia una boutade o, essendo presentata sulla maggiore testata economica nazionale non sia un reale ammiccamento a certe correnti di pensiero che sappiamo albergare da tempo nella classe imprenditoriale. È evidente però che, di corsi in ricorsi, la Storia stia ripercorrendo strade già note.

A metà dell’Ottocento, quando una nuova borghesia si stava formando negli Stati Uniti e, soprattutto, compiva il difficile sforzo si affrancamento ideologico dalla vecchia Europa, il dibattito non era molto diverso da quello odierno. Brigham Young, il carismatico imprenditore che forgiò lo Stato dei Mormoni nel deserto dell’Utah, nel 1859 fu intervistato da Horace Greeley proprio su questi temi. Young riteneva la schiavitù niente di meno che un dono di Dio: “La consideriamo istituita da Dio, e che non si possa abolire finché la maledizione pronunciata su Cam non sarà revocata sui suoi discendenti”.

Ma al solito la vita perde di aulicità quando deve fare i conti le esigenze quotidiane: alla domanda di Greeley, se ritenesse che lo Utah avrebbe dovuto diventare uno Stato schiavista, Young esclamò perentorio: “No! diventerà uno Stato Libero. La schiavitù qui si rivelerebbe inutile e non redditizia. Io la considero in genere una maledizione per i padroni. Io stesso affitto molti lavoratori e li pago equamente; non mi potrei permettere di possederli. Posso fare di meglio che sottopormi all’obbligo di nutrire e vestire le loro famiglie, di provvedere a loro e di averne cura, che siano in salute o malati. Lo Utah non è adatto al Lavoro Servile”.

Francois Lyotard diceva che siamo atomi che si scontrano tra loro in una rete. Allora il web non era ancora nato, ma era appena stato prodotto il primo pc, la crisi petrolifera sanciva la crisi del fordismo e in Cile il generale Pinochet apriva la strada ai Chicago boys. Non c’è un disegno comune, non c’è una progettualità, un piano, ma c’è solo il caso. Lo scontro degli interessi privati produce la società di mercato, che per regolarsi non ha bisogno di nessun Leviatano.

La storia non ha una razionalità, perché la casualità prodotta dai movimenti degli atomi non si lascia imbrigliare da una qualche ragione. È la società complessa, poi divenuta liquida, destrutturata, come il pensiero che l’ha teorizzata. Non esistono piani, ideologie, sistemi di pensiero, esistono solo “narrazioni” che, invece, nel vero senso letterario del termine hanno fatto una brutta fine.

Alla fine ha prevalso, il guicciardiniano “particulare”, il privato: l’uomo del consumo, il cui grado di libertà sta inesorabilmente azzerandosi. Nel primo Novecento, gli ideologi dicevano che la libertà doveva essere un fine, non una condizione a priori. E la consapevolezza dei propri condizionamenti (o delle proprie “catene”), è il primo e fondamentale passo verso la libertà.

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