L’origine del male

Non c’è ombra di dubbio che questa campagna elettorale sia diversa dalle altre che l’hanno preceduta: non solo è stanca e povera di idee ma è brutta. Se è un decennio che la politica non ha più la forza nemmeno di pensare a nuove promesse che sappiamo poi non manterrà, l’arena politica s’è fatta scura, rancorosa e livida. Soprattutto spudorata: perché non c’è più alcun pudore nel mostrare pensieri dei quali solo un decennio fa, ci si sarebbe vergognati. Ma Donald Trump ha portato una rivoluzione: dire, finalmente, quello che s’è sempre pensato nel silenzio del privato. Perlomeno s’è smesso di predicare.

Sia chiaro le elezioni italiane del 2018 non sono certo una rivoluzione: da quelle francesi amministrative e poi politiche che hanno portato Macron all’Eliseo, a quelle tedesche dell’ennesima “Große Koalition” passando per quasi tutti i Paesi dell’Unione, il dibattito ha sempre ruotato intorno all’invasione degli “uomini neri”.
S’è smesso di predicare perché c’è tanto da razzolare nel buio della paura. Si parla di razzismo, del ritorno del fascismo come fosse un orco che s’affaccia all’orizzonte: ma l’orco siede insieme a noi, non se n’è mai andato.

L’orco è proprio dentro di noi.

Nell’estate del 1893 la Compagnie des Salins du Midi cominciò ad assumere lavoratori per la raccolta stagionale del sale dalle vasche di evaporazione delle saline. Con la disoccupazione in aumento a causa della crisi economica europea, la prospettiva di trovare lavoro stagionale attirò più persone del solito. Gli stagionali furono suddivisi in tre categorie: gli ardéchois (contadini, provenienti in molti casi, anche se non sempre, dal dipartimento rurale dell’Ardèche, che lasciavano i campi stagionalmente), i piémontais (italiani, provenienti da tutta l’Italia settentrionale e reclutati sul posto da caporali) e i trimards (vagabondi).
A causa delle politiche di reclutamento della Compagnie des Salins du Midi, i caporali erano costretti a formare squadre miste composte sia da francesi che da italiani. La mattina del 16 agosto una rissa tra lavoratori delle due comunità degenerò rapidamente in una questione d’onore. Nonostante l’intervento di un giudice di pace e della Gendarmerie nationale, la situazione peggiorò rapidamente. Alcuni trimards raggiunsero la città di Aigues-Mortes e diffusero la falsa notizia che gli italiani avevano ucciso alcuni concittadini; la popolazione ed i lavoratori locali rimasti disoccupati andarono quindi ad ingrossare le file dei lavoratori francesi inferociti. Un gruppo di italiani in città fu attaccato e si rifugiò in una panetteria, cui i francesi tentarono di dar fuoco. Il prefetto richiese l’invio di truppe intorno alle 4 del mattino del 17 agosto, ma queste giunsero in città solo alle 18, quando la strage si era già consumata.
Al mattino la situazione degenerò. I rivoltosi si diressero alle saline Peccais, dove era concentrato il maggior numero di lavoratori italiani. Il capitano della gendarmeria Cabley cercò di proteggere gli italiani, promettendo ai rivoltosi che avrebbe cacciato gli italiani una volta che fossero stati accompagnati alla stazione ferroviaria di Aigues-Mortes. Proprio durante il trasferimento alla stazione, però, gli italiani furono attaccati dai rivoltosi, che i gendarmi non riuscirono a contenere, venendo linciati, bastonati, affogati o colpiti da armi da fuoco.

Morirono 17 operai, 8 ufficiali e 400 persone furono feriti in modo più o meno grave.

La parola “linciaggio” nasce negli Stati Uniti e trae origine da un colonnello quacchero della Virginia, Charles Lynch, che riteneva di avere il diritto di impartire punizioni estreme facendo a meno della giustizia: era “la legge di Lynch”. a Virginia, terra che gli diede i natali, già nel 1782 regolarizzò tale pratica consentendo al colonnello e ai suoi fedelissimi la piena immunità. Fu proprio la non perseguibilità in sede civile e penale e la conseguente impunità a rendere il linciaggio una sorta di metodo giudiziario per folle schiumanti di rabbia. Dalla Virginia questa abominevole pratica dapprima si spostò sui carri degli uomini che se andavano alla frontiera per poi raggiungere il profondo Sud, dove ottenne la più macabra delle consacrazioni. Nel corso del tempo mutarono gli scenari, le modalità e perfino il numero di partecipanti ai linciaggi ma un elemento non si modificò mai. Gli autori dei linciaggi, lungi dall’essere pazzi esaltati, macellai sanguinari, assassini perversi, uomini ai limiti della marginalità sociale erano sempre onesti e patriottici cittadini americani convinti di infliggere una dura ma necessaria punizione agli sbandati che appestavano le città e le campagne.

Sentimenti di feroce disprezzo che furono indirizzati verso i neri, i musi gialli e gli italiani. Verso gli italiani l’opinione pubblica nutriva un sincero disprezzo che differiva affatto da quello provato per altre sfortunate minoranze. Gli immigrati italiani, nell’America a cavallo tra ottocento e novecento, erano considerati alla stregua delle bestie da soma. I ricchi proprietari terrieri e gli industriali li cercavano avidamente tanto per i salari bassissimi con i quali li retribuivano, quanto per la loro capacità di resistere ad orari e condizioni di lavoro massacranti: gli italiani erano nel linguaggio comune quello che è per noi, oggi, il cinese. Noi diciamo “lavora come un cinese” per dire lavorare da spaccarsi la schiena oppure “quell’oggetto è cinese” per dire che è una fregatura: ecco negli Stati Uniti si diceva tal quale, lavorare come un italiano per significare sgobbare come un mulo oppure “italian job” per indicare una fregatura.

Nell’America di fine Ottocento che cresceva economicamente a ritmi esponenziali, gli altri salariati detestavano gli italiani, nel nome di una guerra tra poveri che vedeva i nostri connazionali recitare, loro malgrado, il ruolo di crumiri. La nascente classe borghese provava nei loro confronti un misto di ribrezzo e riprovazione. Negli Stati del Sud – quella della Confederazione sconfitta nella Guerra di Secessione ma che di fatto aveva mantenuto le proprie abitudini schiaviste – gli italiani erano ritenuti una “razza” a metà, tra bianchi e neri. Nel Nord gli si rimproverava di essere intrinsecamente avidi, rei di risparmiare vivendo nella sporcizia per migliorare la propria condizione sociale e per mandare qualche soldo alla famiglia lontana (le rimesse dei nostri rumeni e filippini di oggi, per dire). Ovunque gli italiani erano etichettati come mafiosi, piccoli criminali sempre pronti a tirar fuori il coltello.

“Vendetta è la loro parola d’ordine”, diceva una sentenza del 1891.

Un terreno intriso d’odio, razzismo e impunità perché ai nostri connazionali fossero risparmiati corda e sapone. Il primo cappio intorno al collo di un italiano fu stretto a Viccksburg, in Viriginia, nel 1886, l’ultimo a Tampa, in Florida, nel 1910. In mezzo altri luoghi e altre date: Louisville 1889, Denver 1893, Walsenburg 1895, Hahnville 1896, Tallulah 1899, Erwin 1901, Ashdown 1901, Davis 1903. Il 15 ottobre 1890, a New Orleans – allora quarta città degli Stati Uniti – viene assassinato il capo della polizia cittadina, D. C. Hennessy. Da subito le indagini si concentrano sui 30.000 italiani che in quel periodo viveva a New Orleans. Arresti indiscriminati, violenze, confessioni e delazioni estorte sotto tortura furono i mezzi utilizzati dalle pubbliche istituzioni per trovare i colpevoli in seno alla comunità italiana. Alla fine le indagini si conclusero con un rinvio a giudizio di nove imputati, che vennero completamente prosciolti in sede giudiziaria. La stampa urlò allo scandalo e si iniziò a parlare di processo farsa. Il montante clima di odio fu cavalcato dalle autorità locali, Joseph Shakespeare, il sindaco di New Orleans, definì gli italiani “individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei negri e più indesiderabili dei polacchi”. Una sorta di pubblico proclama finì sulle pagine di diversi giornali. Lo firmarono eminenti membri della comunità che invitavano il mob a farsi giustizia. La folla rispose. Secondo alcuni 6000 cittadini, secondo altri addirittura 30000, si recarono il 31 marzo 1891 alla prigione di New Orleans dove massacrarono nel modo più barbaro 11 italiani. Una triste ma fin troppo realistica vignetta di un nostro giornale negli USA, raffigurava il segretario di Stato americano che porgendo una borsetta all’ambasciatore italiano diceva “costano tanto poco questi italiani che vale la pena di linciarli tutti”. La storia dei linciaggi terminò soltanto nel 1964. Furono appesi in tutto quasi 5.000 tra giovani e vecchi, colpevoli e innocenti: 4.230 neri, 374 gialli, 258 messicani e 140 bianchi. 34 di loro erano italiani.

Il 23 giugno 1946 Governo italiano e Governo belga firmano un accordo per il trasferimento di 50.000 lavoratori nelle miniere di carbone più estese d’Europa. L’accordo “minatore-carbone” recita: “Il Governo italiano, nella convinzione che il buon esito dell’operazione possa stabilire rapporti sempre più cordiali con il Governo belga e dare la dimostrazione al mondo della volontà dell’Italia di contribuire alla ripresa economica dell’Europa, farà tutto il possibile per la riuscita dei piani in progetto. Esso provvederà a che si effettui sollecitamente e nelle migliori condizioni l’avviamento dei lavoratori fino alla località da stabilirsi di comune accordo in prossimità della frontiera italo-svizzera, dove a sua cura saranno istituiti gli uffici incaricati di effettuare le operazioni definitive di arruolamento.
E ancora “Il Governo belga mantiene integralmente i termini dell’ “accordo minatore-carbone” firmato precedentemente. Esso affretterà, per quanto è possibile, l’invio in Italia delle quantità di carbone previste dall’accordo […] II Governo italiano farà tutto il possibile per inviare in Belgio 2.000 lavoratori la settimana”.
E così partirono per il Belgio ben 63.800 persone che spesso avevano già lavorato in terribili condizioni nelle miniere di zolfo della Sicilia. Concittadini che venivano maltrattati perché considerati “amici degli invasori nazisti” da poco sconfitti: non parlavano francese, gli italiani che partivano e soffrivano anche l’enorme differenza di censo con i belgi. Erano neri, gli italiani, ancora una volta e non di carbone. Una condizione che migliorerà solo dopo l’arrivo di Paola Ruffo di Calabria, la principessa italiana che il 2 luglio 1959 sposa quello che diventerà Albert II, roy des Belges. E in Paola migliaia di immigrati troveranno una protettrice per sfuggire alla condizione di inferiorità classista nella quale erano relegati per diritto divino: una inversione dell’ordine costituito che molti cittadini belgi, specie quelli più anziani, non perdoneranno mai ad Albert.

Ma se il razzismo è qualcosa che noi italiani abbiamo subito e anche qualcosa che abbiamo praticato a nostra volta. In Libia, in Somalia e in Abissinia con comportamenti vili che ancora non abbiamo il coraggio di indagare e raccontare. Ma se il Novecento è stato il secolo nel quale la ferocia che abbiamo sempre dedicato ai subumani delle colonie ci si è riversata, a noi europei, anche in casa cosa sta accadendo nel nuovo secolo?

Accade quello che è accaduto nel secolo scorso, ma in chiave sovranazionale e globale. Ma tra la ferocia della Grande Guerra e il palesarsi dell’orco di questi giorni, c’è stato un lustro durante il quale si è lavorato in silenzio. Perché il vaso di Pandora, non è stato rotto all’improvviso.

Prima c’è stata la rimozione collettiva della saggezza popolare: sono state rimosse le fiabe, racconti ancestrali di vita vissuta, parabole volte ad ammonire sui pericoli della vita e a costruire quel retaggio al quale appellarsi quando si è soli contro le avversità. Racconti duri, come quelli raccolti dai Fratelli Grimm, da Perrault, da Andersen oppure messi in prosa dal nostro Giambattista Basile, sono stati sostituiti da storielle edulcorate strutturate tutte secondo la medesima partitura. Antefatto di una vita meschina, fatto scioccante che innesca la trasformazione, lieto fine: perché tutti abbiamo qualcosa di particolare e, soprattutto, per tutti c’è un lieto fine ad attenderci. Ma una promessa fa presto a trasformarsi in un diritto.

Io ho diritto ad un lieto fine, lieto fine che è per sempre s’intende.

Quindi ho diritto ad una vita lieta e felice.

Ma la vita non è mai né lieta né felice, o almeno non lo è “sempre” a meno che non abbiamo una lesione ipotalamica che induca una produzione continua di endorfine e comunque anche in quel caso la felicità non sarebbe per sempre perché si tratterebbe di uno stato patologico. E quindi questo diritto alla vita lieta, negato, naturalmente negato, porterà lentamente alla nascita di un fastidioso senso di frustrazione.

Se queste nuove favole vengono interpretate e diffuse da una industria mondiale, quella mediatica, che le traspone dal cinema alla vita reale moltiplicandone gli stilemi in migliaia di immagini riflesse in altrettanti specchi (le televisioni che tutti abbiamo in casa) potete immaginare quanto possa montare questo senso di frustrazione.
Il fascismo è questo: imposizione di una serie di canoni nascosti dietro il riconoscimento delle diversità di tutti. Un riconoscimento falso: uomini e donne, etero e omosessuali, sani e handicappati, bianchi e colorati sono tutti diversi ma tutti uguali nell’essere obbligati a desiderare di aderire allo stesso canone. La principessa, il principe, il povero che diventa ricco, il malato che guarisce, il difetto che scompare.

Pelle, capelli, orecchie, seni, polpacci, natiche, pettorali: tutto è già preconfezionato, non c’è spazio per il diverso.

Perché il mondo del politicamente corretto vuole che tutti siamo uguali: ma veramente uguali.

Cosa ci obbliga ad esserlo? Suvvia, chi non vuole il lieto fine e la vita perfetta?

Tutto questo ha un prezzo: (1) rinunciare a guardarsi dietro, perché il desiderio non si argomenta sennon nella sua stessa esistenza; (2) lavorare sodo per raccogliere le risorse necessarie al raggiungimento del lieto fine. La casa (il castello) dei sogni, una famiglia (regale), la beltade.

Ora cosa accade quando questo costrutto viene immerso nella vita reale?
Quello che genera un bicchiere d’acqua ghiacciata gettato in una padella d’olio bollente: un’esplosione continua che ci ferisce dentro.

Un malessere dal quale non possiamo scappare.

Un malessere per il quale dobbiamo trovare un colpevole.

Così mentre i sogni si fanno sempre più esigenti e costosi, difficoltosi da raggiungere non c’è spazio reale per l’anomalia. Il difetto e la malattia sono lussi che non possiamo permetterci: non è un caso che i prodotti farmaceutici più venduti siano medicinali contro il raffreddore. Ma non c’è nulla che abbia effetto, allo stato attuale delle conoscenze mediche, contro i rhinovirus tanto che nell’ambiente medico è noto che chi dimostrerà l’efficacia reale di un farmaco contro questi virus sarà un Nobel sicuro.
Non possiamo fermarci anche quando il malessere dentro è assordante: per questo ci sono luoghi dove noi pensiamo che si stia meglio che da noi, qui, in questa miserrima penisola. Come negli Stati Uniti dove si muore 31 volte più che da noi per overdose: di droghe ma soprattutto di un farmaco antidolorifico 250 volte più forte della morfina. Oppure come in Nordeuropa dove il tasso di incidenza delle droghe è 10 volte il nostro.

Perché quando si prova dolore, al corpo, o, peggio, dentro si può fare due cose: lo si annulla, fuggendo via con ogni mezzo e quindi morendo lentamente. Oppure lo si libera sotto forma di odio per ciò che riteniamo esserne la causa. E siccome sappiamo – anche senza ammetterlo a noi stessi – che la vera causa è lontana o a noi irraggiungibile ne dobbiamo trovare un sostituto.

È il nero, il giallo, lo storto, il diverso: per aspetto, credo e convinzioni, prestanza. È l’eugenetica, quella non-scienza che da una parte all’altra dell’oceano Atlantico ha attraversato un secolo per arrivare dalle asettiche aule delle università americane all’orrore della soluzione finale alla fine del Terzo Reich. Eppure oggi nei talk-show giudichiamo gli immigrati con il metro dell’eugenetica senza neppure accorgercene.

Più allontiamo il diverso più il canone ci perseguita: non vogliamo dis-abili, ma abbiamo figli dis-lessici, dis-grafici, dis-lalici, dis-calculici.

Siamo afflitti dalla dis-tonia tra promess del lieto fine e vita reale in corpi dis-morfici: troppo grassi, troppo magri, troppo poco senso, troppe natiche, orecchie troppo grandi, nasi troppo affilati, labbra troppo piccole, troppa pelle dove non dovrebbe.

Viviamo con rancore realtà dis-topiche delle quali diamo la colpa a chi è diverso: e facciamo gruppo per punirlo addossandogli colpe ancestrali.

A parole combattiamo il bullismo e le bay-gang, ma i bambini e i giovani non fanno che imitare gli adulti nello sport del secolo: si chiama, ancora, linciaggio.

Siamo, questo sì, dis-umani.

Pensiamo, illudendoci, che i demoni liberati dal vaso di Pandora siano addomesticabili a nostro uso e consumo: pensiamo che una volta che gli avremo sacrificato qualcuno loro se ne torneranno a nostro piacimento placidi e mansueti nel loro vaso. La storia, quella che non abbiamo il tempo di studiare, insegna che in tutti i credo, da Pandora a Eva, da Kali a Lilith, da Gui alle visioni di San Giovanni, una volta liberati i mali ancestrali questi divoreranno tutti a iniziare dai loro evocatori.

Infatti puntiamo agli immigrati ma abbiamo iniziato ad accettare panchine con punteruoli per impedire ai vagabondi di fare la bella vita oppure scuole che si fanno bella pubblicità per evitare di accogliere quei “diversamente abili” che, in fondo, sono propri gli stessi “nati storti” che in Illinois nel 1926 si “accompagnavano” all’eutanasia oppure nella Svezia del 1976 si sterilizzavano.

Mentre i giornalisti, in questi giorni, alimentano la giostra dell’odio ripetendo il mantra che i rimpatri degli extracomunitari non sono sostenibili economicamente, nessuno si chiede quali siano veramente le colpe di chi è stato letteralmente deportato sulle nostre coste. Non paga raccontare cosa il nostro Paese abbia fatto nei luoghi remoti in cui gli stranieri sono nati (qui e qui per esempio) e non hanno trovato futuro né quali immagini irreali cinema e tv continuino a elargire a chi sogna un futuro migliore anche a migliaia di chilometri di distanza.

Cosa diremmo se oggi tutti i nostri 500.000 concittadini che vivono all’estero fossero costretti a tornare?

Italiani, congolesi, nigeriani, cingalesi, peruviani non sognano tutti una vita migliore?

Oppure solo noi europei, abbiamo il diritto di farlo?

Gli stranieri delinquono di più (non proprio ma il pregiudizio vuole così) perché sono intrinsecamente votati al malaffare oppure perché, vivendo al margine, sono quelli più facilmente esposti ai richiami delle sirene della criminalità organizzata?

Gli emigranti italiani degli Stati Uniti erano settari e poco inclini ad adeguarsi agli usi locali, oppure erano poco istruiti e non conoscevano la lingua?

I nostri figli sono dis-qualcosa oppure gli abbiamo messo un vestito canonico troppo stretto perché troppo lontano dalla realtà delle cose?

Corriamo corriamo, perché lo desideriamo veramente oppure perché qualcuno ha detto che dobbiamo farlo anche a costo di nascondere il dolore fisico e quello psicologico con medicine e droghe che ci regalino un barlume di effimera felicità?

Quando non ci saranno gli stranieri, resteremo nudi con la nostra frustrazione e le nostre droghe. Allora i demoni vorranno altre vittime per saziarsi: non passerà allora molto tempo, prima che ci divorino tutti. Perché il canone ha un unico, grande difetto: è difficile da afferrare come un miraggio. Ci vuole un nonnulla per ritrovarsi dall’altra parte della barricata ad essere additati come diversi.

E quindi colpevoli.

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