L’estinzione dei neandertaliani è uno dei grandi misteri della storia evolutiva. Un enigma che ha appassionato generazioni di scienziati sin dal 1856, quando furono rinvenuti i primi resti di questi ominini. Per centinaia di migliaia di anni avevano vissuto in Europa superando le enormi sfide dei cambiamenti climatici, come mai allora sono improvvisamente scomparsi circa 45.000 anni fa?
Pat Shipman docente di Antropologia alla Pennsylvania State University e tra i massimi esperti mondiali di Paleontologia, avanza una ipotesi allo stesso affascinante e inquietante.
Dal riconoscimento dei Neanderthal come specie, nel 1856, la loro estinzione ha sempre costituito un enigma per i paleo-antropologi. A fronte della scoperta di nuovi fossili e dei passi avanti fatti nella ricerca e nelle nuove tecniche di analisi, l’estinzione di una specie dalle caratteristiche tanto familiari (usava il fuoco e gli utensili, era socialmente cooperativa, era capace di far fuori i grandi mammiferi, impiegava simboli, arte e comunicazione, anche se in misura limitata) continua a essere un mistero.
Dopo un modesto esordio evolutivo, avvenuto in Africa circa 200.000 anni fa, la nostra specie si è diffusa in ogni angolo del mondo: ha invaso una regione geografica dopo l’altra, ha sfruttato nuovi habitat al punto che oggi è presente in ogni continente. Viviamo nel caldo soffocante dei tropici, nel gelo dell’estremo Nord, in cima alle montagne e in fondo alle vallate, su isole e continenti insulari, nei deserti, nelle foreste pluviali, nelle foreste temperate, negli ambienti aperti come in quelli chiusi. Non viviamo sott’acqua, tranne che in habitat artificiali come i sottomarini, ma molti umani vivono in barca o in villaggi galleggianti su laghi e fiumi. Ci siamo insediati praticamente in ogni habitat della Terra. Pat Shipman sottolinea che questo primato ci rende una delle specie invasive maggiormente di successo che siano mai comparse sulla Terra.
Perché il nostro successo ha avuto un prezzo molto alto per il pianeta. Gli Homo sapiens hanno distrutto milioni di ettari di terreno fertile fino a che il terreno è stato eroso dai mari, ed è così ancora oggi. Abbiamo abbattuto immense aree coperte da foreste, boschi e praterie che un tempo producevano ossigeno che ricostituiva l’atmosfera, e frutti, foglie, radici e noci che sfamavano noi e molte altre creature. Siamo riusciti a inquinare, avvelenare e far seccare innumerevoli sorgenti d’acqua grazie ai nostri crescenti e insaziabili bisogni, ai nostri prodotti chimici tossici, ai nostri immensi cumuli di rifiuti. Ma soprattutto abbiamo contribuito all’estinzione di molte più specie di quante sia possibile calcolare. Il libro della Shipman esamina una fase particolarmente cruciale della nostra storia, l’epoca in cui si estinse l’ultima specie di ominini non umani (neandertaliani).
Areale di diffusione dei Neanderthaliani.
La tesi della Shipman è che l’estinzione neandertaliana sia dovuta alla comparsa degli uomini moderni nella loro area geografica: in poche parole, gli umani sono una specie invasiva estremamente adattabile, e noi ci siamo comportati esattamente come tali nel corso di questa estinzione. Ma in questo processo hanno avuto un aiuto esterno: una specie con la quale abbiano un legame ancestrale simbiotico. Il cane.
Fino ad ora, tuttavia, la convinzione di buona parte della comunità scientifica si fondava sulla teoria formulata dallo scienziato Francis Galton. Secondo lo studioso britannico fu l’uomo l’artefice della domesticazione del lupo, iniziata quando attecchì l’abitudine di introdurre e allevare negli accampamenti dei cuccioli.
Recentemente alcune scoperte hanno evidenziato diversi punti deboli nella teoria di Galton soprattutto quando la si usa per spiegare in maniera più approfondita il complesso legame stabilito tra cane e uomo. Infatti, il passaggio da lupo a cane non solo si sarebbe verificato in migliaia di anni ma non sarebbe bastata la convivenza negli accampamenti umani a cambiare del tutto la natura dei cuccioli di lupo. Ecco perché ha preso piede l’ipotesi dell’auto-domesticazione: i primi uomini lasciavano all’esterno dei propri insediamenti delle carcasse di animali allettanti per dei predatori come i lupi. Tra questi ultimi i più coraggiosi non esitavano presumibilmente ad avvicinarsi dando il via al millenario rapporto con l’uomo. Forti del cibo fornito dall’uomo e soprattutto dal coraggio di avvicinarsi ad esso, i lupi crebbero forti, si moltiplicarono e all’interno degli accampamenti umani assunsero un ruolo ben definito ora di pastori, ora di guardiani, ora di compagni di caccia.
Un legame non subito dai cani, anzi al quale partecipano attivamente (ad esempio con la produzione di ossitocina). Un meccanismo tipico del legame madre-figlio: quello per cui, fissandosi negli occhi, si stimola la reciproca produzione di ossitocina, un ormone che rafforza la reciproca fiducia ed empatia e aiuta a capirsi anche in assenza di una comunicazione verbale. In questo modo si spiegherebbe il successo evolutivo nei cani di quella che è una anomalia genetica come tante ma che nei cani è diventata una caratteristica peculiare: la comparsa delle sclere bianche negli occhi. Una caratteristica che permette di comunicare con lo sguardo, cosa che normalmente fanno gli uomini e che anche i cani hanno imparato a fare. E che soprattutto che ha permesso l’instaurazione di una comunicazione interspecistica di successo come quello tra un essere umano e il proprio cane.
Bella illustrazione di una caccia congiunta tra uomini e cani-lupo di Dan Burr.
Nessun altro predatore apicale è riuscito a fare quello che i Sapiens hanno fatto entrando nel continente eurasiatico tra 50 e 45.000 anni fa. Ma nessuna altra specie ha intrapreso la trasformazione che consente a umani ed ex lupi di vivere e lavorare insieme e anche di sviluppare una profonda forma di comunicazione interspecistica. Se ulteriori evidenze seguiteranno a corroborare l’ipotesi secondo la quale gli uomini moderni avrebbero rafforzato il proprio ruolo di predatore apicale alleandosi con i primi lupi-cani, ogni residuo interrogativo relativo alla sopravvivenza dell’uomo moderno e all’estinzione delle altre specie umane avrebbe risposta.
Il cambiamento climatico accompagnò senza dubbio l’estinzione dei neandertaliani, ma, per la Shipman, non sarebbe l’elemento fatale di quella stessa estinzione. D’altro canto i neandertaliani non si estinsero nelle precedenti fasi, fredde e lunghe tanto quanto quelle verificatesi tra 50 e 30 mila anni fa. L’elemento nuovo sopraggiunto all’epoca della loro estinzione era proprio la dura competizione con un predatore eccezionale, al quale successivamente si unì un terzo predatore apicale. L’intera gilda dei predatori fu minacciata e messa a dura prova dalla comparsa degli uomini moderni e non solo i neandertaliani si estinsero ma anche molti altri predatori come i macairodonti (tigre dai denti a sciabola), i leoni delle caverne, i giganteschi orsi delle caverne (alti fino a 3 metri e pesanti oltre una tonnellata) e le iene delle caverne.
Ancora una bella illustrazione di Dann Burr, raffigurante scene di vita paleolitica tra uomini e cani-lupo.