All’interno del parco safari Kruger del Sudafrica un turista ha documentato una scena alquanto insolita: una mandria di bufali che salva un elefantino attaccato da alcuni grossi leoni. Si tratta di un comportamento che potrà sorprendere molti, abituati a dare per scontato un comportamento egoistico negli animali e soprattutto in caso di competizione interspecistica. Un grande predatore attacca un cucciolo di un grande erbivoro: perché mai altri erbivori dovrebbero aiutarlo, rischiando a loro volta la pelle?
In realtà il mondo animale è costellato di questi fenomeni di aiuto disinteressato che testimoniamo una cosa molto semplice: gli animali non sono macchine ma esseri viventi in grado di provare un ampio ventaglio di emozioni compresa l’empatia. Da dove deriva però l’altruismo in modo specifico?
Intorno al comportamento di aiuto si è sviluppato un ampio dibattito nel mondo dell’etologia e della biologia perché tale carattere– definito come comportamento che tende ad aumentare il numero dei discendenti di un altro individuo a scapito della propria sopravvivenza e riproduzione – di fatto sembra cozzare contro i fondamenti stessi dell’evoluzione.
Se il motore dell’evoluzione sta nella capacità riproduttiva ovvero, per ciascuna specie, lasciare il maggior numero di discendenti possibile, è evidente che un comportamento altruistico può dare al soggetto solo un abbassamento del potenziale riproduttivo e nel tempo tale carattere svantaggioso dovrebbe inevitabilmente scomparire. In questo modello non c’è spazio per l’empatia.
Gli studiosi neodarwiniani, soprattutto quelli ortodossi, pur avendo intravisto il significato del comportamento altruistico, non sono riusciti a spiegarlo in modo coerente con la loro dottrina, tanto che si è parlato (come per la sessualità) addirittura di enigma. Un’ape operaia che non esita a trafiggere l’intruso nel suo alveare, non ostante si tratti di una mossa suicida; certi uccelli (ma anche certe scimmie o lemuri) che lanciano il segnale di allarme all’arrivo di un predatore, non ostante attirino su di sé l’attenzione del nemico col rischio di restarne sopraffatti; il famoso caso della ghiandaia della Florida, i cui nati della prima generazione prestano la loro collaborazione ai genitori nell’allevamento delle nidiate successive, e tantissimi altri casi noti ai naturalisti e agli etologi in particolare, non si possono inserire senza una evidente forzatura nel quadro della concezione darwiniana e soprattutto neodarwiniana, dove le questioni si spiegano soprattutto in termini di selezione, di riproduzione e sopravvivenza differenziale, di vantaggio riproduttivo, e via dicendo. Dato che nella concezione neodarwiniana in ogni cosa devono necessariamente entrarci i geni, non si è riuscito a comprendere come sia stato possibile selezionare il “gene dell’altruismo” e come questo abbia avuto addirittura successo evolutivo.
Nel quadro della concezione neodarwiniana della vita e dell’evoluzione è decisamente incoerente che un individuo sacrifichi sé stesso a favore degli altri. Può la selezione naturale favorire azioni altruiste che riducano il successo riproduttivo dell’attore? In quali condizioni la selezione naturale favorirà l’altruismo? E allora, così come da parte dei neodarwiniani è stato detto per il sesso, anche l’altruismo appare un enigma inestricabile.
Quello che a certi studiosi è apparso una sorta di enigma, inspiegabile nel quadro della logica darwiniana – che, come si sa, impone il successo riproduttivo individuale -, trova invece una spiegazione semplice e coerente nel quadro di una concezione ecologica dell’evoluzione e dei sistemi viventi. La popolazione è una categoria ecologica fondamentale che necessita di sistemi che ne garantiscano l’unità e la conservazione. Mentre il sesso è sicuramente il principale fattore unificante (che tiene quindi unita la popolazione e ne impedisce la dispersione), altri fattori concorrono alla conservazione della popolazione medesima. Uno di essi è appunto il comportamento altruistico. Tale comportamento non è però universale, ma interessa solo certe categorie di viventi, per alcune delle quali è indispensabile, mentre per altre è complementare. In certe categorie di viventi un certo tipo di comportamento altruistico è addirittura obbligatorio per la sua conservazione; si pensi per esempio alle cure parentali interspecifiche nei mammiferi. Invece l’allarme lanciato da uccelli, pesci, scimmie, ecc. in situazioni di pericolo, non è altrettanto importante per la conservazione della popolazione. In questo senso comportamento altruistico è in diverse misure uno dei tanti fattori di conservazione della popolazione.
La coppia di bufali cafri che si scaglia con tutta la loro massa (un maschio arriva a quasi 600 kg) con le leonesse che hanno aggredito l’elefantino dimostra però qualcosa che va oltre la conservazione della popolazione (dei bufali, nel caso) perché salvano un cucciolo abbandonato dal proprio branco e ormai spacciato. I bufali non ci guadagno nulla, in prima istanza, dalla sopravvivenza dell’elefantino anzi, guadagnano leoni più affamati nei propri paraggi.
Nel 2011 due ricerche diverse, condotte sugli umani, sono arrivate allo stesso risultato, individuando un gene, Avpr1a, che “regola nel cervello ormoni legati ai nostri comportamenti sociali”, incluso l’altruismo e lo spirito cooperativo. Usando la tecnologia di risonanza magnetica che consente di raffigurare in immagini la nostra attività cerebrale, gli stessi scienziati hanno osservato che ad ogni atto di generosità il gene Avpr1a rilascia neurotrasmittenti simili alla dopamina, che producono una sensazione di benessere fisico. Queste conclusioni hanno rafforzato il ruolo darwiniano dell’altruismo. La teoria dell’ evoluzione, se applicata non solo alla biologia individuale ma alla selezione dei gruppi e delle specie, dimostra che prevalgono le società e organizzazioni complesse dove si esalta il gene della cooperazione.
Ma questa spiegazione non giustifica affatto l’altruismo interspecistico a meno di non mettere in gioco l’empatia, altra sensazione non ancora completamente spiegata a livello fisiologico. Non si tratta affatto di umanizzare i comportamenti animali ma di andare oltre l’assurto secondo il quale l’uomo è una macchina complessa e gli animali un insieme di istinti meccanici. D’altro canto sovente gli animali sono utilizzati per provare o spiegare teorie comportamentali oppure fisiologiche che riguardano gli umani: perché non potrebbe essere il contrario?
I neuroni specchio agiscono allo stesso modo sia quando siamo noi a compiere un’azione sia quando osserviamo compierla ad un’altra persona. Il fatto che il nostro cervello reagisca allo stesso modo spiega l’apprendimento per imitazione, l’emulazione e anche l’empatia, perché viviamo l’azione di un altro come se fosse la nostra e ci aiuta a capirla. I neuroni specchio furono scoperti nel contesto della sperimentazione con gli animali, per l’esattezza con le scimmie. L’equipe del Dott. Rizzolatti li identificò per la prima volta nella specie Maccaca nemestrina e li localizzò nella corteccia premotoria, la quale è specializzata nel pianificare, selezionare ed eseguire i movimenti.
Se i neuroni specchio sono stati “scoperti” studiando le scimmie, non si vede perché riportare questa teoria al mondo animale equivale all’accusa di antropizzazione di un comportamento meccanico. Dopo la scoperta di questi neuroni nelle scimmie, furono fatti studi sugli esseri umani con l’obiettivo di verificarne la presenza e se avessero una relazione con l’apprendimento, l’imitazione e l’empatia.
Sappiamo che noi esseri umani siamo in grado di riconoscere i gesti delle altre persone, possiamo riconoscere le emozioni anche solo guardando il viso di qualcuno. Possiamo anche non conoscere quella persona, ma questo non ci impedisce di fare ipotesi sul suo stato d’animo e in molte occasioni indoviniamo. Osservando quanto accaduto al parco safari di Kruger, è probabile che alla vista dell’elefantino in difficoltà nei bufali (maschi, quindi nulla a che vedere con l’assimilazione filiale) si siano attivati i neuroni specchio vedendo proiettata la sofferenza di un cucciolo su di sé andando a sfidare il pericolo maggiore della savana anche per un ruminante di 600 kg. D’altro canto l’empatia è il collante dei sistemi sociali e sia i bufali che gli elefanti vivono in branchi estremamente coesi.
Sono certo che molti, leggendo questo pezzo, mi accuseranno di ardita proiezione di strutture comportamentali umane ad altre specie non umane. Lecito ma non posso non pormi la stessa domanda che Frans De Waal si è posto nel suo ultimo lavoro: siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?