Attendendo le motivazioni degli arresti e delle perquisizioni di questa mattina in Campidoglio, una modesta riflessione.
All’arrivo di questa Consiliatura si stavano già coagulando discutibili interessi intorno alla candidatura olimpica di Roma per il 2024: ma l’iter per il nuovo stadio della Roma era già in fase avanzata. In quel momento, se aveva un senso bloccare la candidatura olimpica ancora di più ne aveva bloccare l’iter dello Stadio.
Perché?
Perché si trattava di un programma complesso costruito su un vizio di forma, sottaciuto – fino a prova contraria, in buona fede – dalle precedenti amministrazioni Alemanno e Marino, messo in secondo piano dall’evidenza delle opere pubbliche messe a base dell’accordo di programma.
Ma il vizio era lì: si trattava di una macroscopica trave, eppure tutto il dibattito a seguire si è poi concentrato sulle pagliuzze trasportistiche e delle opere compensative.
Ecco, compensative appunto.
Compensative di quell’atto formidabile che è la variante urbanistica: una variante che andava a trasformare un’area senza dubbio ridotta in pessimo stato e senza alcun valore commerciale ma fondamentale per la fisiologia ecologica del fiume. Tralasciando gli elementi di funzionalità ambientale fluviale che naturalmente non interessano a nessuno, si trattava di un’area che commercialmente valeva ZERO.
Un’area acquistata per un valore irrisorio su un accordo antecedente alla scelta dell’area da parte dell’Amministazione Alemanno e formalizzata qualche giorno prima della presentazione della proposta da parte dei proponenti alla Amministrazione Marino. Una transazione che si è dilungata durante l’approvazione del piano e si è conclusa a valle dell’approvazione con alcuni passaggi quantomeno capestri, come poi accertato dalla Magistratura.
Un’area la cui destinazione d’uso, con la dichiarazione di pubblica utilità, poteva passare da servizi territoriali e verde non attrezzato a contenitore per servizi di pregio.
I vincoli ambientali – l’essere area golenale interna ad un meandro del Tevere, l’essere zona storicamente dichiarata di possibile espansione per l’impianto ACEA di depurazione delle acque reflue, l’essere zona adiacente alle stesse vasche di raccolta e trattamento dei reflui di 1,2 milioni di abitanti – che ne pregiudicavano il valore commerciale, azzerandolo di fatto, diventavano elementi secondari nel dibattito. Persino l’impatto odorigeno – fisiologico, s’intende – che oggi è all’ordine del giorno sembrava non interessare ai proponenti che avrebbero dovuto allocare il nuovo Stadio non solo per eventi sportivi ma anche di spettacolo come anche migliaia di metri quadri di pregiati spazi commerciali. Se è vero che dai diamanti non nasce niente, senza dubbio resta difficile assistere ad un concerto oppure passeggiare immersi in fertili ma poco gradevoli effluvi.
Ma questa è una logica commerciale non di chi dovrebbe fare il bene pubblico. Perché i programmi complessi nascono per dare qualità all’azione pubblica, rendendo l’urbanistica qualcosa di allettante anche per l’iniziativa privata. Certamente un obiettivo non facile da raggiungere.
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del secolo scorso non si poteva – o almeno così appariva al tempo – che prendere atto del fallimento dell’urbanistica fatta dallo Stato: i piani di edizilia economica e popolare avevano riempito le città di luoghi dove l’atto stesso del risiedere sembrava una prigionia. Venuta a mancare l’impellenza della domanda residenziale di quantità del Dopoguerra e della migrazione urbana del boom economico, era giunto il momento della ricerca dei contenuti più che del contenitore. I programmi complessi nascono per tentativi locali, non incardinati in uno strumento legislativo nazionale.
Sono strumenti non più volti a governare la crescita quantitativa ma a promuovere la trasformazione qualitativa: non servono a dare una destinazione d’uso e a stabilire la disciplina dei suoli e degli edifici entro un determinato perimetro, come accadeva per i Piani attuativi tradizionali ma a promuovere servizi territoriali incardinati in proposte che fossero di iniziativa privata. Un modo per coinvolgere le risorse del mercato nell’economia generale del territorio.
Ma questa assenza di un quadro normativo nazionale è la questione urbanistica entro la quale la questione romana non è che un diverticolo locale: discuterne esula da questa breve riflessione, basti una domanda, l’ennesima. Stante la vetustà della Legge 1150 del 17/8/1942 perché mai nei programmi elettorali non c’è mai l’impegno per una nuova legge quadro nazionale sull’urbanistica anzi sul Governo del territorio?
Nel vecchio secolo lo Stato – o le sue emanazioni – proponeva e disponeva. Nel mondo attuale il privato propone e lo Stato dispone: o meglio, così dovrebbe essere.
Il privato segue la domanda del mercato. E cosa chiede, il mercato delle città: aeroporti (questione in pausa per Roma), centri commerciali e stadi. Ogni società di calcio vuole il suo stadio, poco importa che già ne esistano e che l’affitto di quelli esistenti – prima diversione di interessi tra pubblico e privato – sia una perdita per le società ma anche una fonte di reddito per le casse comunali.
Trent’anni di Programmi complessi mostrano un panorama più crepuscolare che in chiaro-scuro: consumo di nuovo suolo piuttosto che trasformazione, scelte di pubblica utilità non basate su attente analisi dei bisogni territoriali, eccessiva sovrapposizione del punto di vista privato con quello pubblico. E no, l’assenza di una riflessione iniziale non può essere colmata sovraccaricando oltremodo il privato di opere d’urbanizzazione: se è vero che nel progetto della Giunta Marino le opere pubbliche a carico dei proponenti del nuovo stadio della Roma erano pressoché il doppio rispetto a quanto modificato dalla Giunta Raggi, restavano tanti vizi procedurali. La scelta dell’area di Tor di Valle con le sue complicazioni ambientali – suoli di cattiva qualità strutturale, tendenza alle risalite improvvise della falda, l’essere un meandro in un fiume come il Tevere soggetto a periodiche e pronunciate variazioni della portata, l’adiacenza a uno dei più grandi impianti europei di depurazione delle acque reflue – potevano essere risolte da un nuovo ponte sul fiume o da 3 chilometri di metropolitana? Quelle sono risposte ad esigenze intrinseche all’opera – scontate verrebbe da dire – più che una risposta a pregresse complicazioni – per così dire – ambientali.
Chi garantisce che l’AS Roma non muova, a opera conclusa, una causa legale per miasmi all’Acea? Oppure che le torri previste dal progetto Marino/Caudo fossero realmente realizzabili in depositi alluvionali di così scarsa portanza geotecnica? Oppure ancora che, in caso di esondazione o allagamento dei parcheggi interrati (previsti in entrambi i progetti) non ci fosse una richiesta di risarcimento danni all’amminsitrazione per assenza di argini o prèsidi idraulici?
D’altro canto nella analisi costi-benefici dell’opera a nessuna delle amministrazioni coinvolte in questo lungo iter sia mai venuto in mente di valutare il futuro degli altri stadi della città: quando la Roma – e probabilmente anche la Lazio, l’altra squadra della città – avranno il loro stadio, cosa sarà dell’Olimpico. E del Flaminio? Nell’ostinazione di assecondare il privato e le sue logiche non è forse il bene comune a perderci in questa ipertrofia impiantistica che sembra ripetere la logica dei centri commerciali che continuano a moltiplicarsi nonostante la crisi incipiente?
Una cosa è certa: dall’urbanistica di scarsa qualità, con i programmi complessi siamo passati alla qualità, forse, senza l’urbanistica.
Linkopedia
La complessa vicenda dello Stadio
Criticità idrogeologiche dell’area
L’inaugurazione del Drizzagno, l’opera idraulica che chiuse il meandro seguente