La storia di Angelo, cane di strada

Antefatto. Giugno 2016, un posto come tanti dell’Italia rurale. In un pomeriggio come tanti quattro ragazzi decidono di combattere la noia prendendo la vita di Angelo, un cane di strada. Decidono di filmare tutto con uno smartphone, per vantarsene con tutti i compagni. A seguito della diffusione del video sui social network, sono state organizzate marce di protesta per chiedere giustizia e per spingere il governo ad inasprire le leggi e le pene per il maltrattamento, la violenza e l’uccisione di animali.

L’Enpa, ente nazionale per la protezione degli animali, ha scelto di affiancare il progetto “Angelo, life of a street dog” lanciato da Newscapes Entertainment, per raccogliere i fondi necessari per realizzare un cortometraggio dedicato alla sua memoria e a quella degli altri animali vittime di violenze e maltrattamenti.

 

Non è chiaro perché alcuni di noi non provino empatia verso gli altri, verso gli animali. Non è affatto qualcosa legato a questi tempi, è qualcosa che è sempre esistito. Come molti di noi non hanno alcun senso della famiglia, altri non hanno la capacità di percepire la sofferenza degli altri.

Quello di cui dovremmo preoccuparci è come mai tanti giovani, nella nostra società, vivano un distacco tanto forte dal proprio io, tanto da non percepire più alcuna emozione. Una dissociazione dal proprio sé interiore che mette il mondo esterno su un vassoio lontano, riducendo il proprio vissuto ad un grumo di sensazioni elementari: un dito che si scotta, l’ebbrezza di un bicchiere d’alcol, l’effetto di una sostanza psicotropa.

 

No, non è un fenomeno occasionale tantomeno passeggero: che lo vogliamo o meno, nel mondo di domani l’empatia sarà un’emozione di pochi. Perché l’empatia ha un prezzo troppo alto nel mondo dei grandi numeri e dei processi produttivi che prima di tutto devono essere convenienti a tutti i costi.

È il mondo del debito che deve essere ripagato, della produttività ad ogni costo, dell’assolutamente veloce prima degli altri. Del comunque e subito, costi quel che costi e possibilmente il meno possibile. Perché siamo bulimici di cose ma abbiamo perso la capacità di sentire.

Ecco, sentire richiede tempo.

 

Non sentire costa, ma è un prezzo che abbiamo accettato di pagare. Negli Stati Uniti il 62% delle persone ha fatto uso di oppiacei legali o illegali. Il 42% della popolazione ha sviluppato forme di dipendenza e quella in atto è considerata la peggiore epidemia che abbia mai colpito la nazione. Non sentire costa.

Impersonarsi nell’altro, richiede tempo, perché dobbiamo cambiare punto di vista.

Ascoltare la natura richiede tempo, perché parla un linguaggio che non è il nostro e che probabilmente ancora non siamo in grado di decifrare.

Per questo abbiamo lasciato tanto spazio alla cultura della competizione: è nelle scuole, nei videogiochi, nei film, nella narrazione quotidiana. La vita è un talent: chi sbaglia è fuori.

Ma le regole le facciamo noi: forse non è ancora troppo tardi per cambiare il futuro.

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