Il Comune di Roma, in virtù dei poteri straordinari concessi per l’organizzazione del Giubileo 2025, ha pubblicato l’Avviso pubblico esplorativo per la ricerca di operatori economici interessati alla realizzazione del nuovo termovalorizzatore capitolino. Tra i 10 documenti che accompagnano l’Avviso, l’unico elemento tecnico è l’Allegato 1 con le specifiche tecniche.
Le specifiche richieste
L’intervento è localizzato nel Municipio IX, in località Santa Palomba, a 21 km dal centro città su un’area di superficie complessiva di poco meno meno di 10 ettari. Si richiede una capacità nominale di trattamento di 600.000 tonnellate anno e un carico termico di 250 MW su due linee di produzione. Si richiede infine la realizzazione di idonei impianti accessori per il trattamento di 40.000 t/anno di ceneri leggere e 150.000 t/anno di ceneri pesanti.
Insomma, tutto chiaro: qual è il problema, quindi?
In sintesi:
- La valorizzazione di un impianto di incenerimento rifiuti è realmente efficace laddove l’impianto sia localizzato in prossimità della città: la distanza media tra le grandi città europee è di circa 5 km dal centro. Quello di Roma è localizzato a 21 km in un luogo fatto di capannoni industriali e basse densità edilizie;
- Chi debba usufruire dell’elettricità e dell’energia termica prodotta è una decisione che riguarda l’efficienza stessa del processo: la pianificazione territoriale non può essere demandata al mercato, così come gli impianti di trasmissione che ne conseguono;
- Il ciclo di un termovalorizzatore richiede ingenti quantità d’acqua (1,2 milioni di metri cubi/anno nel caso della proposta per Roma pari al consumo medio/anno di 14.000 abitanti) e lo smaltimento di polveri e ceneri fini non recuperabili (26.000 tonnellate all’anno): sarà il mercato a scegliere dove prelevare l’acqua necessaria e dove smaltire 23.400 metri cubi (lo spazio di un cubo di 153 metri di lato) di ceneri?
- Infine, ma non meno importante: che ne sarà degli obiettivi di riciclaggio (63% per il 2025 come da Piano Regionale, mentre Roma è ferma al 42-43%) che la città si è posta?
Fisiologia della termovalorizzazione: il caso di Brescia
Utilizzando la Dichiarazione ambientale 2021 di A2A, gestore del termovalorizzatore di Brescia, cerchiamo di indagare la fisiologia di questo tipo di impianti industriali.
Prima di tutto un termovalorizzatore è un impianto di trasformazione che produce energia partendo da una serie di ingredienti quali rifiuti ed energia utile al funzionamento degli impianti.
Tra gli ingredienti ci sono alcuni elementi minori, ma non per importanza: in particolare una serie di reagenti necessarie per contenere le emissioni dei fumi e stabilizzare le ceneri prodotte dalla combustione.
La valorizzazione termica richiede anche parecchia acqua: nel caso di Brescia ben 771 mila metri cubi all’anno – a 215 litri/anno pro-capite pari al consumo medio annuo di un quartiere di 10.000 abitanti – presi in gran parte in loco da pozzi e in parti minori dall’acquedotto. L’impianto è anche dotato di un sistema di raccolta delle acque piovane, che in media riesce a sopperire a circa il 5% del fabbisogno nominale di processo. Al netto dei processi di conversione energetica dei rifiuti e di trattamento delle ceneri, l’impianto produce poco meno di 158 mila metri cubi di acque reflue industriali da depurare.
In termini di rifiuti solidi, il termovalorizzatore di Brescia produce 168 mila tonnellate anno di materiali grossolani e fini. La gran parte (87%) vengono recuperati in situ, mentre la parte residua (21.700 tonnellate, prevalentemente di ceneri fini) non è recuperabili e deve essere smaltita come rifiuto pericoloso.
Le emissioni prodotte dalla combustione sono in gran parte catturate da speciali filtri ceramici (da sostituire e smaltire ogni 3 anni circa). Restano principalmente ossidi di azoto e una quota residua di acidi gassosi oltre naturalmente alla produzione di anidride carbonica.
Ora, la parte più importante: gli ingredienti. Come ho raccontato in altro articolo, quello che conta per un termovalorizzatore è il potere calorifico inferiore di ciò che si manda nel combustore. Il cuore della questione è nel mix del rifiuto solido: maggiormente è depurato dalla quota energeticamente più ricca (carta, plastica e derivati) più ci sarà bisogno di un aiutino per tenere adeguatamente alta la fiamma della valorizzazione. Brescia ha una discreta quota di riciclo dei rifiuti urbani (72,4% nel 2021 ma la Regione Lombardia si è data l’obiettivo dell’83,3% al 2027): ne risulta un mix tale da conferire un potere calorifico bassino, circa 11 MJ/kg. L’aiutino consiste in una quota di combustibile solido secondario (CSS) con un PCI di 15 MJ/kg quindi biomasse (18 MJ/kg). Il combustibile di supporto (metano, 38,5 MJ/kg) è la diavolina del termovalorizzatore e serve a tenere la fiamma in regime di produttività per alimentare l’impianto di produzione energetica e termica.
Tutto questo contribuisce al bilancio delle emissioni climalteranti: le emissioni di processo meno le emissioni evitate danno un valore negativo che è la misura della valorizzazione.
Ora tutto è relativo. Prima di tutto non è formalmente corretto inserire tra le emissioni evitate il conferimento in toto della quota di rifiuti in ingresso nel combustore, perché abbiamo visto che accanto ai RSU stabilizzati si affiancano quote di rifiuti espressamente prodotti – CSS e biomasse. Se si valuta poi l’energia grigia di contorno necessaria alla produzione dei reagenti necessari alla stabilizzazione delle ceneri e al controllo delle emissioni gassose e della contaminazione delle acque, ovvero all’energia necessaria al trattamento delle acque in ingresso all’impianto e di quelle reflue in uscita, si trova un bilancio complessivamente negativo.
L’energia necessaria al trattamento (esterno all’impianto, fattori dall’inventario EPA) delle acque è di ben 3.500 MWh anno, mentre tra i reagenti necessarie l’impatto più rilevante è legato alla produzione della calce, dell’ammoniaca e dei carboni attivi.
Un impatto negativo, cosa significa? Semplicemente che la termovalorizzazione non è che un processo industriale complesso che estrae parte dell’energia contenuta nei rifiuti ovvero nei prodotti che la nostra società ritiene di dover scartare. Ma non inverte il secondo principio della Termodinamica pertanto si tratta sempre dell’estrazione parziale della quota complessiva di energia che questi prodotti hanno introiettato dentro di sé per esistere e servirci.
Ed è per questo che è necessaria una attenta pianificazione prima che progettazione di questi impianti.
Un termovalorizzatore non è che un termocamino di scala urbana
I dati resi disponibili dal gestore dell’impianto di Brescia – assolutamente generalizzabili, come da letteratura – indicano che quello che la maggior parte delle persone – e, sic, degli amministratori – pensa dei termovalorizzatori non è corretto. Ragionando sul peso del combusto (fig. 1) il 70% è composto da rifiuti solidi urbani (RSU) mentre la restante parte è costituita da materiali appositamente prodotti per alimentare il processo di combustione.
Parlando di combustione, perché come abbiamo visto non tutti i RSU sono uguali e la differenza la fa – scusate il gioco di parole – la quota di differenziazione a monte della raccolta, la grandezza di riferimento è il potere calorifico inferiore (PCI). Nel caso di Brescia (fig. 2), per esempio, per unità di PCI si trova che il 60% è fornito dai rifiuti solidi urbani e il restante 40% da prodotti idonei a svolgere la funzione della Diavolina in un barbecue.
Il principale di questi componenti è il Combustibile Solido Secondario (CSS): Wikipedia riporta che il CSS “è un tipo di combustibile derivato dalla lavorazione dei rifiuti urbani non pericolosi e speciali non pericolosi. Può essere suddiviso in due principali tipologie: il CSS e il CSS-combustibile, che differiscono per le loro caratteristiche chimico/fisiche e per il loro status giuridico. Il CSS-combustibile infatti, è materiale che ha cessato la qualifica di rifiuto e che pertanto viene considerato un nuovo prodotto. Il CSS rimane invece un rifiuto e la sua lavorazione, gestione e utilizzo può avvenire solo in impianti autorizzati alla gestione dei rifiuti. Il decreto legislativo 152/2006 (Testo Unico dell’Ambiente) ha introdotto la definizione di CSS, che abroga la precedente definizione di CDR (combustibile derivato da rifiuto), attraverso il decreto legislativo n. 205/2010 all’articolo 183, lettera cc)“. Senza offesa, possiamo dire che il CSS è il solito neologismo luccicante per nascondere una sconfitta: ovvero che ciò che avremmo fatto bene a pensare di non produrre – o produrre meno – ha un impatto ambientale rilevante e quindi lo brucio per dare un senso – bruciando questa colpa originale – a questa sconfitta ecologica. D’altro canto il CSS ha una sua ragion d’essere come elemento di transizione verso la riduzione dell’impatto di attività produttive energivore, prime tra tutte quelle dei cementifici. L’utilizzo nei termovalorizzatori dei CSS è surrettizio a questo scopo: attenzione a non fare del mezzo un fine.
Quindi l’installazione più efficiente di un termovalorizzatore è in adiacenza a dove la domanda di calore ed energia è più alta, cioè in stretta in prossimità delle città. Qualche esempio in giro per l’Europa:
Questa rapida disamina – oltre che a dimostrare la curiosa peculiarità dell’italiano, unica lingua nel quale gli inceneritori diventano termovalorizzatori – mostra in tutta evidenza il peccato originale del futuro impianto di Roma: essere proiettato a 21 km dal centro città, nel piano dell’Agro fatto di capannoni industriale e basse densità residenziali cioè laddove la domanda di calore ed energia è più bassa.
Questa scelta, che appare secondaria all’Amministrazione visto che nel Disciplinare tecnico la riconosce la ne delega la risoluzione al proponente privato che dovrebbe (pagina 6 delle Specifiche tecniche) occuparsi dell’impiantistica deputata alla distribuzione di calore e/o vettori energetici verso i possibili soggetti terzi pubblici e/o privati insistenti nelle prossimità dell’impianto comprensiva di tutti gli annessi impiantistici, del piping dedicato e delle opere edili ad esso funzionali. Ma qui si richiede al proponente di non realizzare delle opere impiantistiche ma di fare scelte di gestione del territorio ovvero di pianificare la destinazione finale del valorizzato dalla combustione, sia esso energia o calore.
Come si vede bene dallo schema funzionale dell’impianto di Brescia (fig. 14) un termovalorizzatore non è che una grande caldaia (a più linee) che genera gas caldi che vengono indirizzati a una turbina per la generazione elettrica ovvero a loro volta recuperati come fluido termico.
Secondo i principi base della cogenerazione, una caldaia è tanto più efficiente quanto riesce a rendere fruibili sia il calore prodotto che l’energia elettrica: rinunciare al contributo prevalente (cioè l’energia termica, fig. 15) significa abbatterne il rendimento nominale di almeno il 35% e quello reale (per il maledetto effetto Joule) fino al 42-45%.
Insomma se così stanno le cose, all’Amministrazione capitolina interessa realizzare un inceneritore che faccia sparire la monnezza dalla città. L’energia e il calore prodotti sono un di cui fregiarsi come un qualunque altro elemento di pregio ambientale di facciata ovvero come l’ulteriore impiantistica e/o ulteriori annessi a corredo dell’impianto di termovalorizzazione (ad es. coperture con pannelli solari, mitigazioni a verde etc) che il proponente voglia inserire quali migliorie delle richieste principali.
Molti diranno che Roma è una città dal clima mediterraneo-caldo: potrà mai servire un impianto urbano di teleriscaldamento come nella fredda Brescia? Come dimostra il Pan-European Thermal Atlas (Peta4) la domanda di calore generata dalla città di Roma è rilevante tanto quanto quella delle città nordiche: basti pensare che nel Lazio i consumi di gas naturale residenziale sono di 345 smc/ab., in Pianura Padana oscillano tra 764 del Piemonte, gli 815 della Lombardia, gli 889 dell’Emilia-Romagna mentre in Sicilia il consumo medio è di appena 133 smc/ab. Bisogna inoltre considerare che parlando di calore si parla di energia termica che può essere utilizzata anche in estate utilizzando delle pompe di calore d’appartamento o, meglio, condominiali (centralizzato è sempre meglio che polverizzato).
Sia chiaro, per quanto premianti – sempre nelle specifiche tecniche il Comune di Roma sottolinea che l’aspetto Architettonico e di integrazione con il paesaggio saranno considerati quali elementi premianti ai fini della valutazione della proposta – piste da sci, pannelli solari, materiali verdi à-la-page, pareti rinverdite e raccolta delle acque piovane non saranno che abile maquillage verdista di quella che resta l’ennesimo grave problema ecologico.
Il futuro termovalorizzatore di Roma: un po’ di numeri
Come detto, gli elementi progettuali che l’Amministrazione ha indicato nell’Avviso pubblico esplorativo non sono molti, ma permettono di fare un primo, seppure approssimativo, bilancio di sostenibilità economica e finanziaria partendo dall’esperienza di impianti analoghi nel resto dell’Europa. Intanto una capacità di trattamento nominale di 600.000 t/anno di RSU su almeno 2 linee per un carico termico massimo di 250 MW. Se ne ricava la seguente lista di ingredienti e prodotti:
Anche per Roma il bilancio dal pozzo alla ruota dell’impianto è negativo con un eccedenza di 636.000 tonnellate di anidride carbonica emessa per anno di vita utile.
Ora il capitolo più interessante per gli investitori – e doloroso per altri – cioè i costi. Gli impianti allo stato dell’arte e della tecnica (cosiddette tecnologie BAT, Best Available Techniques) oscillano tra i 390mila euro per GWh nominali di energia totale prodotta di Brescia (impianto del 1998) e i 700.000 del progetto per la ricostruzione dell’impianto di Parigi-Ivry, il più grande d’Europa. Copenaghen è a 490.000 euro per GWh nominali di energia totale prodotta. Rapportando i costi alla capacità di trattamento si va dai 460.000 euro/t anno di Brescia agli 810.000 di Copenaghen. Prendendo questi valori e aggiungendo un impianto di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica di processo, come richiesto nella relazione tecnica dell’Avviso capitolino (un impianto di dubbia efficacia e di non facile gestione, che oggi ha un costo compreso tra 80 e 130 euro per t trattata) l’impianto di Roma potrebbe avere un costo grosso modo compreso tra 334 milioni e 542 milioni di euro (compreso l’impianto di stoccaggio della CO2, valutato in 56,4 milioni di euro). A proposito delle opere integrative, nell’Avviso si legge che Roma Capitale erogherà un contributo pari al 49% dei costi dell’investimento massimo e comunque non superiore a 40 Mln € da intendersi a copertura dei costi sostenuti dall’operatore economico per la costruzione delle sole opere ancillari all’impianto di trattamento termico.
Per fissare le idee sui costi dell’operazione, l’impianto di Copenaghen che è allo stato dell’arte e della tecnica ha avuto un costo ultimo di 670 milioni per una capacità nominale di trattamento di 700.000 t anno di rifiuti. Ad ogni modo, messa da parte questa questione, immaginiamo che si provvederà in un modo o nell’altro al reperimento del costo capitale complessivo: l’impianto di Roma entra in funzione e venderà solo elettricità (niente calore, visto che è a 20 km dalla città e a 10 km dalle zone più densamente abitate dei Castelli Romani o della città di Pomezia) per una produzione netta annua di 856 GWh.
Scenario minimo, 334 milioni di euro di investimento: prevedendo 4 anni di lavori e una analisi a 20 anni, con rinnovi ogni 10 anni pari al 40% dell’investimento capitale e un costo lordo di processo pari a 215 euro/t trattata per rientrare del costo di finanziamento (inclusi i relativi costi finanziari e assicurativi) ovvero della tassazione e degli altri oneri fiscali il gestore dovrebbe:
- ricevere 292 euro/t sulle 600.000 nominali;
- vendere l’energia prodotta a circa 195 euro/MWh (a fronte di un costo dell’energia di rete non superiore a 150 euro/MWh, che è il costo medio di fine 2022).
Scenario ottimale, 543 milioni di euro di investimento: prevedendo 4 anni di lavori e una analisi a 20 anni, con rinnovi ogni 10 anni pari al 30% dell’investimento capitale e un costo lordo di processo pari a 229 euro/t trattata per rientrare del costo di finanziamento (inclusi i relativi costi finanziari e assicurativi) ovvero della tassazione e degli altri oneri fiscali il gestore dovrebbe:
- ricevere 352 euro/t sulle 600.000 nominali;
- vendere l’energia prodotta a circa 240 euro/MWh (a fronte di un costo dell’energia di rete non superiore a 150 euro/MWh).
C’è un terzo scenario di costo, del quale si è parlato in occasione del dibattimento parlamentare per l’inserimento del finanziamento nel DEF2022 che stimava il costo lordo complessivo dell’impianto in 700 milioni di euro: in questo caso il costo lordo di processo salirebbe a 232 euro/t trattata e le entrate dovrebbe salire alternativamente:
- ricevere 399 euro/t sulle 600.000 nominali;
- vendere l’energia prodotta a circa 280 euro/MWh (sempre a fronte di un costo dell’energia di rete non superiore a 150 euro/MWh).
Insomma, i termovalorizzatori sono la soluzione?
Come tutti gli impianti possono costituire una valida soluzione alla gestione dei rifiuti se progettati e realizzati cum grano salis. Tecnologicamente ci sono soluzioni più efficienti (è il caso dei pirolizzatori per la piroscissione dei rifiuti, ne parlavo in quest’altro articolo). Il rischio più grande è quello di realizzare impianti che per rientrare dei costi di realizzazione e gestione impongono la loro vita utile (in genere almeno 25-30 anni) sulla pianificazione di soluzioni realmente in grado di ridurre l’impatto ambientale del ciclo di trattamento dei rifiuti.
Emblematico in questo senso è il caso della Danimarca: con 23 impianti di incenerimento e una capacità nominale di trattamento di 4 milioni di RSU è costretta a importare annualmente un milioni di tonnellate di rifiuti dalla Gran Bretagna. Siccome l’importato è quello che noi chiamiamo CSS, cioè la diavolina della combustione, le emissioni nazionali di CO2 – ovvero l’impatto ambientale complessivo del ciclo di trattamento dei rifiuti – sono schizzate in alto, con buona pace degli obiettivi che il Paese si è dato per il 2030 (-70% delle emissioni del 1990). Così nel giugno 2020 il Parlamento danese ha approvato la riduzione del 30% della capacità nominale nazionale di incenerimento dei rifiuti: un non senso se si pensa che la maggior parte degli impianti in esercizio sarà ancora a due terzi della vita utile di ammortamento nel 2030. Sarà un caso che la Danimarca ha visto aumentare la produzione pro-capite dei rifiuti dell’11% tra il 2005 e il 2020, l’Austria (altro Paese che fonda sugli inceneritori il sistema di trattamento dei rifiuti) del 45%, mentre Paesi che hanno un sistema di trattamento meno centrato sugli inceneritori hanno visto scendere la quota di produzione dei rifiuti (è il caso della Svezia, -11%; della Spagna, -32% e dell’Irlanda, -25%).
Insomma, ancora una volta le Amministrazioni pubbliche – italiane e non – si mostrano pavide nel fronteggiare problemi che evidentemente ritengono troppo grandi da risolvere. Più semplice approcciarsi fideisticamente al mercato che tutto può risolvere: salvo, purtroppo, ritrovarsi poi davanti a questioni ancora più complesse da fronteggiare.