Lettera aperta all’Urbanistica italiana

Registro con piacere quest’interessante e quanto mai necessario intervento di Walter Tocci sulla questione milanese e su ciò che essa rappresenta per l’Urbanistica italiana o almeno ciò che ne resta. La critica, come interpretazione e valutazione del contemporaneo, è strumento necessario in tempi di paradigmi prêt-à-porter. E lo è ancor di più quando indagine gnoseologica e morale di quanto è rimasto della povera Urbanistica italiana.

Ma è quanto mai necessario passare ai fatti, in mancanza della benché minima volontà del Legislatore di mettere mano a una nuova Legge urbanistica nazionale (quella vigente è del 1942). Sono i vuoti di una legislazione di quasi un secolo fa e da standard urbanistici di quasi settant’anni fa – un’era geologica con i tempi che corrono – ad aver aperto praterie al mercato. Che non ha fatto altro che quello che sa e deve fare: applicare le leggi fondamentali del mercantilismo. Si badi bene: non è che la ritrosia del Pubblico non manchi di correità. Passare dall’edilizia pubblica al social housing attraverso l’esperienza dei piani complessi è stato un consapevole passaggio di testimone, malcelato dietro il solito anglicorum.

Antesignana del modello Milano è stata proprio la Capitale, con il “nuovo” PRG e il meccanismo delle perequazioni: sebbene il compianto Campus Venuti avesse le migliori intenzioni nel proporlo, sono state tante le ingenuità istruttorie che hanno portato la città a declinare l’idea in sé pregevole delle “centralità” metropolitane in tutto quello che non avrebbero mai dovuto essere, la trasposizione del (dead) mall nell’Agro romano con 1 milione di metri quadri di grandi superfici commerciali e almeno il triplo in cubature residenziali a far da vitamina allo stesso sprawling che avrebbero dovuto combattere.

Oggi, a vent’anni dal “nuovo” PRG, Roma è una marmellopoli edilizia spalmata ben oltre l’Agro tutelato, con la popolazione della ciambella esterna al GRA – tra resto del Comune e cintura di comuni metropolitani – che è aumentata del 50% mentre la popolazione nominalmente residente all’interno del Grande Raccordo si appresta a scendere per la prima volta dal 1961 al di sotto della soglia dei 2 milioni.

Al 1° gennaio 2009 entro il GRA (353 km quadrati) vivevano 2.232.446; nei 5.958 km quadrati (99 comuni contermini fisiologicamente degradati a quartieri di un unico sistema urbano di scala regionale) della grande area urbana romana vivevano 2.223.040.

Al 1° gennaio 2025 entro il GRA (353 km quadrati) troviamo 2.117.247 (-5%); nella ciambella esterna 2.514.132 (+13%).

Facendo riferimento alle proiezioni ISTAT [1], al 2035 potremmo avere 2.055.000 abitanti entro il GRA e 2.800.000 abitanti nell’area urbana esterna con una disgraziata inversione demografica, foriera di costi sociali e ambientali enormi.

Questa tendenza demografica rappresenta una santabarbara se messa accanto ai 5 milioni di metri cubi di cubature cosiddette volanti (si pensi solo al caso di Tor Marancia) stabilite dal meccanismo compensativo perequatorio del PRG e che il protrarsi della crisi del mattone romano ha lasciato sospese sulla città in attesa che il mercato tornasse a ritenerle appetibili. E quanto accade a Milano potrebbe portare a un transitorio riflusso speculativo verso la capitale: che sia un possibile coup de théâtre è tradito da una certa tendenza mediatica a rispolverare il “prodotto Roma”.

Se il modello Milano ha tentato l’iperdensificazione del pivot metropolitano oltre all’evidente problema speculativo compulsivo portato dalla scomparsa totale del soggetto pubblico ci sono stati anche effetti macrourbanistici positivi: non a caso la popolazione residente nel Comune è passata da 1.295.705 del 2009 agli attuali 1.367.518 (+6% circa, contro il -5% della Roma intra-GRA).

Mentre il privato a Milano lanciava proposte sempre più ardite, il pubblico che faceva? A Roma, Cagliari, Firenze e nella stessa Milano s’accartocciava intorno al dilemma di come mettere a reddito i vecchi stadi, resi obsoleti dalle leggi del solito mercato (più piccoli, più agili, più fotogenici per i canali on-demand). E l’altro grande giocatore urbanistico “pubblico” nazionale, Rete ferroviaria italiana, con sua massa critica di scali e aree dismesse invece di riflettere se in prospettiva uno scalo merci continuerà in futuro a non servire (in un mondo che vede una crescita esplosiva del traffico merci a tutte le scale) oppure a convertirli – in quanto impianti “industriali” – in nuovi usi utili come quelli energetici li offre al mercato immobiliare con operazioni addirittura, se possibile, più corrosive dell’azione speculativa classica perché incartata in scopi di pubblica utilità (come gli “studentati” [3] o le abitazioni “green”) e foriera di ferite inferte nel cuore vivo delle città, dove scali e stazioni dismesse erano stati non a caso dislocati tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Ritirata ormai in un incomprensibile Aventino da Ancien Regime, le Amministrazioni che dovrebbero fare da apripista nazionale a un dibattito serio, quelle di Roma e Milano cosa fanno? O si autoassolvono cum laude (sic) oppure offrono brioche alla bruttura delle periferie: 80 milioni di euro per un arena scoperta all’ombra del rudere più costoso della storia italiana contemporanea (380 milioni dal 2007 a oggi tra costruzione e manutenzione) ma illuminato in un modo che fa invidia al mondo (con 7 milioni di euro in led). Non so quale mondo provi invidia, ma offrire tutto questo incartato in grandi nastri autostradali e lontano dal trasporto pubblico locale, fa un po’ rabbia a pensare a cosa c’è intorno e al fatto che 400 milioni equivalgono a quasi 80 nuovi edifici scolastici (secondo i progetti PNRR, una scuola elementare o media di media grandezza in classe energetica quasi zero costa 5-5,5 milioni di euro).

Non è un buon segno se ciò che resta dell’Urbanistica a Milano sono progetti complessi di immobili 80/20 (80% a prezzo – gonfiato – di mercato e 20% in locazione -sic – calmierata) e nella capitale un contenitore inutile ma bello (sono di parte, in quanto funzionalista il bello è nell’uso di tutti) e qualche piazza. Ma nel piccolo Roma non è che una Milano poraccia dove è più facile nascondere gli inciampi: basti pensare all’affaire Provincia-Parnasi dove, stando alle ricostruzioni della magistratura, l’acquisto della Torre uffici di Castellaccio avrebbe fornito la liquidità utile per l’acquisto dei terreni di Tor di Valle dove s’è poi tentato di realizzare il nuovo Stadio della Roma. Un malcostume generalizzato (così fan tutt* sancito da una Corte giudiziaria che il popolino fa da sempre suo con il liberatorio è tutto-un-magna-magna) che s’è risolto con una tirata d’orecchi generale all’Amministrazione capitolina, come pure nel caso della Vela di Tor Vergata, senza che fossero riconosciuti responsabili.

Forse, ancora una volta, l’azione giudiziaria è solo il dito. Ma il problema è altrove, grande, immenso sebbene, a quanto pare, resti invisibile ai più.

Eppure, i temi sono lì, sul tavolo:

✅Il “modello Vienna” (45% città pubblica, 55% città privata tanto nei contenitori edilizi quanto nei contenuti [2]) sarà mai trasponibile a Roma e Milano?

✅Ostia, Pomezia, Guidonia, Fiano Romano (ma esempi ve ne sarebbero in tutte le aree metropolitane italiane) possono diventare ville nouvelle, luoghi del bel vivere non più enormi ricoveri per pendolari generatori di spostamenti verso la città centrale ma luoghi attrattori di attività e risorse ovvero generatori di opportunità?

✅La revisione nazionale del DM 1444/1968 non è più procastinabile: di tanto in tanto aggredito sic et simpliciter dal potere autonomistico delle Regioni, il decreto dispone una cassetta minima degli attrezzi non solo inadatta ma anche dannosa per la città contemporanea. Adeguando i 18 metri quadri per abitante alla realtà delle cose ovvero considerando che lo spazio per parcheggi privati è ormai di due posti a famiglia (che l’Istat fissa a 2,1 persone) troviamo 5×2,5×2=25 metri quadri a famiglia ovvero 12 metri quadri a persona ai quali si sommano i 2,5 metri quadri di standard per parcheggi pubblici: se consideriamo il mix funzionale delle nostre città e gli adeguamenti al rialzo (fino al +50%) troviamo una media di 17,5 metri quadri di parcheggi per abitanti di standard a fronte dei 15,5 per servizi pubblici e verde: in pratica ope legis lo spazio pubblico di una città dovrebbe essere fatta per oltre la metà di parcheggi e per appena il 27% di spazi verdi!

✅Possibile che si debba affidare il miglioramento dello sterminato e indifferenziato spazio periurbano che circonda Roma e Milano alla realizzazione dell’ennesimo scatolone commerciale se in vent’anni l’abbiamo ridotto nel più grande spazio di brownfield europeo (non a caso riconosciuto come caso di studio per gli studenti d’urbanistica nordamericani)?

✅Esiste uno studio che dimostri che gli scali ferroviari come Porta Romana o scalo San Lorenzo non trovino altra declinazione che essere convertiti in abitazioni à-la-page (non è educato, ma qui non posso non autocitarmi)?

✅È possibile riprendere lo schema dei progetti complessi, desumendo dall’esperienza francese delle zone d’aménagement concerté (ZAC[4]) l’abitudine di affidare la raccolta degli oneri d’urbanizzazione a una società di scopo che solo dopo averli ricevuti concede su nulla-osta dell’Amministrazione centrale il permesso di costruire e realizza lei stessa tali infrastrutture?

✅Se una grande infrastruttura, come un termovalorizzatore [5], genera rendita finanziaria perché si ricorre all’iniziativa privata per realizzarla invece che devolvere almeno una parte di tale rendita per servizi sociali?

Intanto che ci riflettete torno al principio, il caso Milano. Ma prima dobbiamo fare un passaggio lontano, nelle già remote poi interne ma bellissime aree che costituiscono la dorsale montana del nostro Bel Paese. Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne 2021-2027 (PSNAI) è stato pubblicato lo scorso mese di aprile, cioé quasi alla fine del quinquennio ma si vede che non c’era fretta. D’altro canto, lo spopolamento delle aree remote è “irreversibile” perché queste “non possono porsi più obiettivi realistici di inversione di tendenza“.

Il Piano è un De profundis, più che una strategia di sviluppo. Il 60% del territorio nazionale e il 23% della popolazione si devono sostanzialmente arrendere alla progressiva desertificazione: il Piano prevede una strategia di accompagnamento che sembra di avere come unico obiettivo l’inurbamento. Alla faccia della restanza del caro Vito Teti, il Governo rinuncia sic et simpliciter a governare oltre la metà del Paese per drenare le poche risorse rimaste al Paese verso il mercato mercato immobiliare dei grandi centri metropolitani.

Due facce della stessa medaglia: l’urbanistica milanese dove l’Amministrazione rinuncia anche gli oneri dovuti, gli alloggi popolari lasciati vuoti, le esigue forze interne accompagnate verso il mercato urbano. La periferia si impoverisce sempre di più pur di spingere le persone a piluccare le briciole che cadono dal tavolo immobiliaristico, l’ultima grande industria rimasta al Paese.

Il modello Milano – dipolo perfetto con quello romano – è questo: cancellare l’Urbanistica e qualunque legge naturale di pianificazione del territorio per garantire ai capitali la rendita anche quando, se il mercato fosse veramente libero, non ce ne sarebbe.

Concludendo: Milano non è la questione. Milano è una parte di una visione che tanto a Milano, quanto a Roma, quante alle aree interne non mette al primo piano l’interesse delle comunità locali ma il mantenimento di un sistema di rendita mercantilistica. Rendita forzata, essendo l’Italia un Paese in decrescita economica ormai strutturale, quindi che ha bisogno di un flusso sempre maggiore di risorse pubbliche.

C’è una via d’uscita a questo circolo vizioso? Allo stato delle cose non riesco ad essere positivo: ma so che comunque, se mai ci fosse, questa passa inevitabilmente per la consapevolizzazione e il coinvolgimento attivo delle comunità locali. Perché il proprio futuro, in un mondo così complesso e interconnesso, non dovrebbe essere più demandato a terzi.

Note e riferimenti.

[1] Elaborazione dell’autore su dati Istat.

[2] Modello Vienna perché la città è da sempre in testa alle varie classifiche del buon vivere. Per il modello abitativo sociale si veda alla pagina dedicata dell’Amministrazione

[3] Se n’è occupata tra gli altri Presa Diretta.

[4] Si veda alla pagina del Ministero dello Sviluppo, dedicata alle ZAC.

[5] Ed emblematico è proprio il caso di Roma.

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