L’Eurofestival nasce come Gran Premio Eurovisione della Canzone nel 1956 a Lugano, organizzato annualmente dai membri dell’Unione europea di radiodiffusione (UER). L’idea era quella di una sorta di “Coppa delle Coppe”, una gara tra canzoni vincitrici di festival nazionali: insomma tutto sommato qualcosa di interessante per il mercato della musica in un mondo che di lì a poco avrebbe visto grandi e repentini cambiamenti.
Oggi non c’è più l’Eurofestival ma l’Eurovision Song Contest, una manifestazione immersa in un profluvio di effetti prima di tutto visivi e – poi – sonori degni della migliore tradizione hollywoodiana. Un palco scintillante sul quale la canzone ha lasciato il posto ad una koinè di melodie uscite – per stessa ammissione dei partecipanti – da compositori automatici. Melodie che nel migliore dei casi stancherebbero dopo qualche giorno anche da suonerie del cellulare. Il tutto condito con delle coreografie da peep-show – ce n’è per tutti i gusti – della più scollacciata Amsterdam anni Ottanta.
Le lingue nazionali sono scomparse – persino le stoiche Francia e Spagna hanno ormai desistito – a favore di uno standard English “comunitario” – o, direbbe qualcuno, “mondialista” – con un periodare che funziona (provate) persino nel traduttore automatico. Sia mai (ma ve lo sconsiglio) vogliate indagare la profondità dei testi.
In tutto questo l’Italia fa sempre la sua figura perché – quest’anno l’ha dovuto ammettere anche la Giuria di qualità – si ostina a mandare delle canzoni. Che piacciano o no ancora non maniamo melodie ma brani con una storia e un lavoro non automatico dietro.
Il festival, dicono gli organizzatori, è rigorosamente apolitico tanto che è stata fatta una gran fatica quest’anno per tenere fuori dalla scintillante cornice di Tel Aviv quello che accade a soli 54 km di distanza: non si trattava qui di giustificare il terrorismo, ma di denunciare che ad appena, lo ripeto, 54 km, da 25 anni lo stato israeliano tiene in una scatola di appena 360 km quadrati oltre 2 milioni di persone dei quali 1,2 rifugiati dai territori della Cisgiordania. Perché su Gaza vige un durissimo embargo e ci sono pesanti sanzioni (congiunte con la stessa Autorità Nazionale Palestinese) contro chi accetta di commerciare con chi lì risiede: in sostanza, secondo il Governo israeliano, queste persone dovrebbero vivere di autosostentamento. In altri tempi lo avremmo chiamato assedio, ma il lessico cambia.
Intanto l’Eurofestival si amplia: se Israele e Paese incluso sin dagli arbori della manifestazione e si poteva capire, in un certo modo, questa estensione al Mediterraneo meno si capisce perché nel frattempo nessun Paese arabo sia stato accolto. Entrata l’Australia l’Organizzazione ha da poco comunicato che sono in corso le trattative per l’ammissione degli Stati Uniti.
Sarà, quindi, il Festival dei Padri pellegrini e di chi nell’Ottocento declinava la colonizzazione come occupazione imperiale di territori che altro non attendevano che la valorizzazione con l’eccellenza europea?
Oppure sarà ammessa anche l’Argentina, per esempio, che conserva veramente un quarto di DNA europeo (italiano, nel caso)? E magari anche altri Paesi del Sudamerica, che ultimamente hanno visto una robusta immigrazione “contro-mano” dalla Spagna e dal Portogallo?
È difficile dire cosa diventerà questa manifestazione: sarebbe però il caso di prendere atto che s’è perso già molto dello spirito iniziale da “Giochi senza frontiere”. Non c’è più alcuna folkloristica manifestazione di amicizia tra popoli in termini di conoscenza delle reciproche diversità – cosa è più diverso della canzone prima espressione linguistica di un popolo? – quanto piuttosto di tacito avvalimento di uno standard internazionale.
Ma, in fondo, cosa c’è di più politico di tutto questo?
E se è rimasta solo la politica senza la canzone, viene il dubbio che di questa manifestazione canora non ci sia più bisogno.