“Anche Roma avrà il suo termovalorizzatore“: l’annuncio del Sindaco Gualtieri sembra finalmente aprire una via d’uscita dalla sempiterna “emergenza rifiuti” della Capitale.
Nei giorni scorsi, rispondendo sui social a chi mi faceva notare questa novità ho mostrato uno schietto scetticismo attirandomi non poche critiche. Incenerire qualcosa significa sottoporlo a una reazione esotermica che, attraverso l’energia liberata dalle alte temperature, scinde i legami molecolari trasformando un oggetto in una minima componente ancora visibile e in altri composti non visibili. Più altro calore: il fatto che si usino questi flussi di calore per scaldarci dell’acqua, farne vapore e indirizzarlo su una girante non è che un modo per recuperare parte dell’energia che degrado in questo processo. Poi c’è la questione della raccolta dei composti invisibili da raccogliere e intrappolare dai fumi in filtri ceramici che di tanto in tanto, una volta saturi, vanno a loro volta smaltiti. Si tratta di un processo che ha dei costi, dove il recupero energetico è solo una distrazione: quello che guadagniamo in un inceneritore è la scomparsa (preferirei dire riduzione) dei rifiuti.
Incenerire i rifiuti è, a prescindere che si tratti di una pratica diffusa nel resto d’Europa, una risposta ottocentesca a un problema moderno: una distrazione collettiva che ci libera dal peso di assumerci le nostre responsabilità (per esempio che pur avendo i migliori acquedotti al mondo, siamo tra i maggiori consumatori di acque in bottiglia ovvero produttori di bottiglie in plastica) e prendere decisioni che affrontano la questione dei rifiuti per come va affrontata, cioè riducendone la produzione.
Insomma, incenerire i rifiuti non è LA soluzione: è solo una delle possibili soluzioni per lo smaltimento della quota che di rifiuti solidi che non si può – e non che non si riesce a – reimmettere nella filiera della trasformazione. Come accade appunto per i rifiuti speciali, come quelli sanitari (ma anche per questi rifiuti speciali per antonomasia si stanno facendo strada delle alternative alla riduzione per combustione).
Ma andiamo per gradi, mettendo (con cautela) le mani nella monnezza. Prima di cominciare, questo è un articolo un po’ lungo: vi chiedo un po’ di pazienza in cambio ho cercato di alleggerire il racconto con immagini e grafiche esplicative. Spoiler: questa non è solo una critica, la mia proposta è nel paragrafo finale.
L’impatto zero non esiste
Ovvero l’unica azione a impatto Zero è quella non compiuta. Questo è il principio fondamentale dell’ecologia e della salute pubblica negli ultimi tempi messo – narrativamente – in discussione dalla smania pubblicitaria di apparire sostenibili a ogni costo. Sempre più spesso si sente e si legge che quel tal prodotto ha impatto Zero oppure addirittura impatto -1. Si tratta di affermazioni manifestamente impossibili ma non false: diciamo che si limitano a guardare solo una parte del processo di vita di quel prodotto.
La semplice bellezza del linguaggio matematico: il lavoro è trasferimento di energia. Il lavoro più elementare è il trasferimento di una certa quantità di calore Q da una sorgente a temperatura T a un oggetto esterno. Immaginando di rendere reversibili questi trasferimenti, la somma di queste infinite trasformazioni cicliche (andata e ritorno) può essere solo idealmente uguale a zero: in realtà è sempre minore di zero, ovvero invertendo questi processi una parte dell’energia impiegata si perderà per sempre.
Il principio che ho pocanzi enunciato non è che una delle tante formulazioni del Secondo Principio della Termodinamica. Esistono numerose formulazioni – tutte equivalenti – di questo principio; solo per citare le più celebri:
- È impossibile realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100% (formulazione classica).
- È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo senza l’apporto di lavoro esterno (formulazione di Clausius).
- È impossibile realizzare una macchina termica ciclica il cui unico risultato sia la conversione in lavoro di tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea (formulazione di Kelvin-Planck).
Tutti modi equivalenti per dire che eseguito un lavoro con un certo dispendio di energia, non esiste alcun modo di percorrere a ritroso il processo recuperando tutta l’energia impiegata. Questo perché qualunque processo (almeno in questa parte dell’Universo) può essere percorso solo al prezzo della degradazione (in calore) di una parte dell’energia richiesta dal processo. Quel calore non è che una forma degradata di energia dove l’aggettivo degradato sta a significare che non sarà mai del tutto recuperabile per altri fini: in altre parole ogni azione è possibile pagando all’universo un prezzo, cioè la degradazione irreversibile di una parte dell’energia a nostra disposizione.
I fisici hanno dato un nome a questa energia degradata, entropia. I rifiuti urbani, per come li percepisce la società moderna non sono altro che una delle tante forme dell’entropia.
Un mare di monnezza
Roma – purtroppo come molte altre città d’Italia e non solo – è assediata dai rifiuti. Siccome è una situazione tutt’altro che temporanea, decenni di consuetudine hanno fatto sì che i rifiuti finissero ovunque. Anche, soprattutto, nelle aree verdi adiacenti alla città: quelle che dovrebbero restituirci la perduta e cercata naturalità.
Le cattive abitudini – di noi cittadini e dell’Amministrazione, ognuno per propria parte – hanno creato le condizioni ideali affinché il vento trasportasse piccoli rifiuti (prevalentemente plastica e imballaggi ma anche vetro, frammenti metallici e vestiario) spargendoli tra campi e pratoni per una superficie grande (fonte ISPRA) da 4 a 5 volte quella della città costruita. Un bel traguardo, complimenti: dobbiamo prendere atto che se pulire i circa 600 km quadrati della città di Roma è difficile, ripulire dalla situazione mostrata nelle figure precedenti i 3.000 km quadrati di spazi verdi intorno alla città è ormai pressoché impossibile. Prima o poi dovremmo occuparci anche di questo danno permanente visto che quel mare di monnezza avrà almeno un secolo per polverizzarsi in sottoprodotti inquinanti del terreno e dei sistemi ecologici circostanti.
Il riciclo non è per sempre
Facciamo un salto: abbiamo visto che abbiamo riempito km e km di campi di bottiglie, cartacce e pezzi di metallo. Avremmo potuto raccoglierli e riciclarli: certamente! La piramide virtuosa della corretta gestione dei rifiuti vede – attenzione: dopo le buone abitudini di prevenzione, minimizzazione della produzione e il riuso – vede il riciclaggio come il miglior trattamento di quanto ormai prodotto raccolto in giro per la città.
Come tutte le case, riciclare non è la panacea di tutti i problemi: non può essere per sempre e ha sempre un prezzo. Intanto c’é bisogno di energia per l’alimentare il processo e acqua. Riciclare plastica e alluminio ha bisogno di tanta energia, legno e carta hanno bisogno di tanta acqua.
Alla fine il passaggio per il cassonetto inevitabilmente comporterà una perdita di valore economico dei prodotti riciclati: una bottiglia di plastica perde il 68% del proprio valore iniziale, un contenitore in vetro perde la metà del proprio valore. Legno e carta perdono un terzo del proprio valore mentre l’alluminio è quello più stabile, perdendo appena il 10% del suo valore.
Ma a quanti cicli di recupero possiamo sottoporre un oggetto, alla luce di quanto valore economico perdiamo in ciascun ciclo? Alluminio e vetro sono (quasi) eterni. La carta può essere recuperata per circa 7 volte prima di denaturare completamente il prodotto. Il legno massello al primo riciclo se non può essere recuperato in parti, diventa truciolare: quindi si riusciranno a ripetere 3-4 cicli, poi diventerà un materiale non più recuperabile. La plastica intanto perché lascia metà di sé in ogni ciclo e poi perché richiede parecchia energia può farsi un solo giro: la plastica riciclata, una volta raccolta finisce inevitabilmente come combustibile per termovalorizzatori.
Ciò premesso è chiaro che i rifiuti siano una risorsa: se ogni italiano produce ogni anno circa 500 kg di rifiuti da smaltire, significa che inconsapevolmente stiamo lasciando nel cassonetto circa 400 euro di valore commerciale.
I metodi di trattamento dell’indifferenziato
Se il riciclo ha i suoi costi, l’indifferenziato non è da meno. Anzi.
Allo stato attuale della tecnica esistono 5 metodi di trattamento dei rifiuti: il riciclo, come abbiamo visto, il seppellimento in discarica, l’incenerimento, l’incenerimento con recupero energetico (termovalorizzazione, in italiano), la pirolisi.
Una discarica non è che un luogo dove vengono depositati/stoccati e fatti marcire in modo non selezionato e permanente i rifiuti solidi urbani in un processo di fermentazione anaerobica (cioè in assenza di ossigeno) che produce gas (principalmente metano, anidride carbonica e azoto) e percolato.
L’incenerimento è il processo di combustione ad alta temperatura dei rifiuti da cui si ottiene un effluente gassoso contenente i prodotti della combustione e dei residui (ceneri e residui incombusti). L’effluente gassoso deve essere adeguatamente filtrato per raccogliere i composti inquinanti rilasciati dalla combustione: se viene utilizzato per alimentare un ciclo di produzione energetica si parlare di termovalorizzazione. Le ceneri finali del processo sono quantificabili tra 60 e 80 kg per tonnellata trattata (quindi 6-8% del totale trattato).
La pirolisi è un processo di degradazione termica in assenza di ossigeno che, sotto particolari condizioni di pressione e temperatura (circa 450-500° di temperatura, pressione inferiore a quella atmosferica di circa 15 hPa) trasforma le sostanze organiche presenti nel rifiuto in prodotti solidi, liquidi e gassosi combustibili. Non si tratta di un processo di combustione ma di una conversione termochimica che porta alla rottura dei legami chimici (piroscissione) dei materiali con formazione di una componente gassosa combustibile (gas da pirolisi o syngas in quantitativo pari al 70% in massa dei rifiuti immessi) e una componente solida (carbone o char da pirolisi) per il restante 20%. Il gas prodotto è energicamente recuperabile con un ciclo a vapore, mentre il carbone prodotto può essere utilizzato in cementifici o ulteriormente trattato in situ per il suo recupero energetico. Lo scarto ultimo della pirolisi è quantificabile nel 10% del totale trattato.
Esistono poi una serie di trattamenti multipli che adottano due o più dei cicli appena descritti. Il più noto è il trattamento meccanico-biologico (TMB) che sfrutta l’abbinamento di processi meccanici (tritovagliatura) a processi biologici quali la digestione anaerobica e il compostaggio. Appositi macchinari separano la frazione umida (l’organico da portare a essiccamento) dalla frazione secca (carta, plastica, vetro, inerti, ecc.); quest’ultima frazione può essere in parte riciclata oppure usata per produrre combustibile derivato dai rifiuti (CDR) rimuovendo i materiali incombustibili.
In termini di bilancio energetico di processo (fabbisogno meno eventuale recupero intermedio) l’incenerimento tal quale è la tecnologia più energivora, seguita dalla termovalorizzazione e quindi dalla pirolisi.
Nei grafici a seguire le barre a destra indicano lo scarto dalla media dei valori di ciascun indicatore per le 5 tecnologie considerate: le barre blu indicano prestazioni sotto-media, quelle rosse sopra-media.
In termini di emissioni climalteranti di processo (in tonnellate equivalenti di CO2 per tonnellata di RSU trattata) la discarica è naturalmente la tecnologia maggiormente impattante seguita da termovalorizzazione e pirolisi.
In termini di fabbisogni idrici termovalorizzazione e pirolisi sono i meno efficaci (principalmente per il raffreddamento e il controllo della temperatura negli apparati).
Mettendo insieme i fabbisogni energetici lordi, idrici e di altri materiali si ottiene un costo lordo di processo: discarica e riciclo sono i più costosi, termovalorizzazione e, soprattutto, pirolisi i più economici.
Ogni processo produce dei materiali di scarto. La termovalorizzazione è la tecnologia che ne produce di più a parità di tonnellata trattata, seguita dalla discarica e dalla pirolisi. Il riciclo è il meno impattante in termini di prodotti di scarto.
Sommando questi contributi (non pesati) si arriva a un impatto ambientale complessivo. Fatto 100 l’impatto del riciclo la termovalorizzazione con 434 è la tecnologia più impattante seguita dalla discarica (246) e la pirolisi (173). In sintesi, riciclo e pirolisi sono le tecnologie a minore impatto ambientale.
Termovalorizzare o no? Il caso romano
Il progetto presentato dal Sindaco Gualtieri prevede la realizzazione di un impianto di termovalorizzazione presso la zona industriale di Santa Palomba, al confine meridionale di comune di Roma presso Pomezia. L’impianto è dimensionato per trattare 600.000 tonnellate di rifiuti l’anno.
La città di Roma ha una produzione di circa 1,7 milioni di tonnellate anno di rifiuti, in progressivo calo dal 2019 nonostante i lock-down per la pandemia da Cov-Sars-2.
La quota differenziata è di poco inferiore al 45%: siamo ben lontani dall’obiettivo di qualità del 65% fissato nel 2012.
Mediamente, allo stato attuale, l’indifferenziato romano ha un potere calorifico di 17,3 MJ/kg.
Se si realizzasse l’obiettivo di qualità del 2012, di una quota di differenziata pari al 65%, il mix dell’indifferenziato cambierebbe con un potere calorifico medio di 13,7 MJ/kg.
Oggi gli impianti di TMB della Capitale vanno in crisi perché non riescono a gestire l’esubero di 300.000 t/anno di indifferenziato rispetto alla capacità massima di trattamento. Ora se si realizzasse l’obiettivo di qualità del 65% di differenziata, l’indifferenziato scenderebbe da 926.700 a 612.500 tonnellate/anno. Questo avrebbe un effetto sul potere calorifico dell’indifferenziato: rispetto a oggi, per avere la stessa resa energetica il fabbisogno di progetto del nuovo termovalorizzatore dovrebbe passare da 600.000 a 720.000 tonnellate/anno. Se ammettiamo che continua il trend di discesa della produzione complessiva dei rifiuti al dato asintotico di 1,4 milioni di tonnellate/anno al 2025, avere 720.000 tonnellate di indifferenziato significa bloccare la quota di differenziata al 51% del totale prodotto dalla città.
Significa passare dalla piramide virtuosa, al parallelepipedo della stazionarietà: 50/50 tra riciclo e indifferenziato da mandare al nuovo termovalorizzatore.
La stazionarietà del ciclo dei rifiuti urbani portata dalla presenza di un termovalorizzatore non sarebbe affatto una singolarità del caso romano. Paesi che trattano i rifiuti in impianti di termovalorizzazione di grande capacità come Austria e Danimarca (figura 11), per esempio, hanno elevate quote di produzione pro-capite di rifiuti (al 2020 rispettivamente 598 e 810 kg/ab., per confronto Roma è a 549 kg/ab.) su un tendenziale di progressivo aumento invece che di riduzione.
E poi resta l’elefante nella stanza: abbiamo visto che la plastica riciclabile non sia che un ossimoro, purtroppo. Ma abbiamo anche visto che trasformare la plastica in energia, bruciandola, non è per nulla una buona idea. Ma se gli impianti di Copenaghen e Vienna non sono l’agognata soluzione al problema dei rifiuti, allora non c’é via di scampo a trasformare scampoli d’agro romano in centri di conferimento della monnezza stile Blade Runner?
Quindi, che fare?
Non c’é necessità di lasciarsi andare alla disperazione, una soluzione c’é.
Basta non fare confusione: la tecnologia è un mezzo per raggiungere degli obiettivi di ampio respiro (letteralmente). Ma se si assume un approccio fideistico che trasformi la tecnologia stessa in un fine allora si è inesorabilmente destinati al fallimento, ovvero a rimandare nel tempo il ripetersi della solita emergenza rifiuti.
Punto 1. La Governance
La parte più difficile, ma è necessario recuperare dai manuali la regola aurea delle 3-R: ridurre, riutilizzare e riciclare. Impossibile raggiungere quest’obiettivo affidandosi solo alla persuasione morale: come per la sicurezza stradale è necessario indirizzare il comportamento di tutti con regolamenti chiari ed è necessario controllare che questi regolamenti diventino d’uso comune.
Ma per ridurre bisogna andare alla fonte: per il 70% parliamo di imballaggi e aggiunte più o meno superflue ai prodotti di consumo utili a renderli attraenti – prima che sicuri – ai consumatori. In attesa di un intervento nazionale, Comuni e Regioni hanno opportune leve sulle quali agire. Nel caso di Roma, la dimensione demografica del Comune è tale che può invitare i protagonisti della grande distribuzione a sedersi attorno a un tavolo per scambiare l’applicazione di indirizzi comunitari e nazionali che già esistono ma restano disattesi in cambio di una riduzione della tassazione locale. Ad esempio una riduzione parametrica della tariffazione lorda della TARI più quella dei contributi ai consorzi di riciclo in cambio dell’impegno su obiettivi tangibili:
- riduzione/eliminazione della quantità di bevande distribuite in bottiglie di plastica rispetto a quelle in bottiglie di vetro o lattine di alluminio;
- adozione del vuoto a rendere per il vetro e l’alluminio anche attraverso appositi raccoglitori automatici interni ai punti vendita per la raccolta differenziata di qualità (ovvero non “sporcata” da altri materiali come avviene nei cassonetti ordinari);
- riduzione/eliminazione degli imballaggi in plastica per il confezionamento autoprodotto rispetto a quelli cartacei.
La regola da seguire è quella della persuasione a catena: il Comune agisce sulla grande e media distribuzione che a sua volta agisce sui produttori, spingendo verso la sostituzione di bottiglie e confezioni in plastica.
A sua volta, attraverso apposite deliberazioni, il Comune agisce direttamente sulla piccola distribuzione, vietando ad esempio che bar, pizzerie e locali distribuiscano bevande e posate in plastica e derivati favorendo il riuso di vetro e metallo oppure, ove non si possa fare altrimenti, il mono-uso in carta oppure materiali a compostabilità garantita.
Se Roma piange il resto della Regione non ride: il Lazio è la seconda regione italiana per prodotto interno lordo e tra le prime 10 d’Europa. Ha quindi maggior forza contrattuale del solo Comune di Roma – ma il discorso è assolutamente generalizzabile alle altre regioni del Paese – per trattare con la grande distribuzione e gli stessi produttori affinché si abbandoni la produzione di involucri in plastica e in particolare delle bottiglie e bottigliette. Non c’é materiale innovativo che tenga: il 70% dei rifiuti che punteggiano città e campagne circostanti (come ben mostrato nelle immagini in apertura di questo articolo) sono contenitori di plastica. E visto che la plastica ha una minima riciclabilità (2 cicli e tanta energia) semplicemente non va prodotta. Come detto, non significa interrompere il mercato delle bibite e delle acque in bottiglia (anche se meriterebbe una riflessione quella di spendere tanti soldi pubblici per avere mediamente la migliore acqua potabile in Europa dal rubinetto di casa propria ed essere poi i più grandi consumatori di acque in bottiglia) ma tornare al vetro, all’alluminio e (con grano salis) a materiali come il Tetra Pak. Soprattutto tornare al vuoto a rendere più che con sconti e buoni spesa con il deposito cauzionale già attivo in 10 Paesi europei: quando si acquista una bibita in vetro si paga un plus di 10-20 centesimi. Per riaverli si consegna il vuoto alla prossima spesa a una macchina di ritiro: anche l’Italia s’é impegnata nel settembre 2021 ad adottare il deposito cauzionale come fattore di promozione del riuso per la riduzione dei rifiuti. Peccato che poi il Governo si sia dimenticato di approvare il decreto attuativo, che sarebbe dovuto arrivare entro novembre 2021.
Punto 2. Il trattamento dell’indifferenziato
Realizzare una attenta analisi costi-benefici comparativa tra un impianto di termovalorizzazione e un pirolizzatore. Come abbiamo visto la pirolizzazione è più efficace della termovalorizzazione per motivi ambientali ma anche economici. In più, pur avendo un costo simile, la pirolizzazione funziona anche su impianti piccoli mentre gli inceneritori sfruttano l’effetto scala per ammortizzare l’investimento. E abbiamo visto che è questo effetto scala a bloccare le 3-R – ovvero la riduzione dei rifiuti, il riuso e il riciclo – anche in città come Copenaghen e Vienna.
Per Roma quindi sarebbe meglio optare per un pirolizzatore con capacità di 300.000 tonnellate/anno che si affianchi ai TMB esistenti. Un impianto che non sia nascosto e lontano dalla città ma che ne faccia parte magari ricorrendo anche a progetti iconici e adeguatamente condivisi con la popolazione locale. Senza polemica, preferire quindi al verdismo di facciata dell’impianto di Amager Bakke a Copenaghen la progettazione partecipata adottata nel 1987 dall’architetto (e attivista ecologista) Friedensreich Hundertwasser per l’impianto di Spittelau a Vienna.
Siccome un pirolizzatore – come un termovalorizzatore – valorizza i rifiuti con la produzione di energia e, soprattutto, fluidi caldi è bene che non sia spedito a 30 km dalle zone di maggiore densità dove ci sarebbe più bisogno di questa energia termica. Insomma questi impianti funzionano là dove servono: per esempio, come accade a Vienna, in quelle aree golenali individuate a servizi per la cittadinanza e l’ambiente (ogni riferimento a Tor di Valle, restando al caso romano, è puramente casuale: ma visto che ci sono un pirolizzatore da 300.000 t/anno occuperebbe un terzo dell’area del progetto ultimo per il nuovo Stadio e un quinto delle volumetrie previste).
Nella transizione ecologica uno dei problemi maggiori per il raggiungimento degli obiettivi è quello di rendere più efficiente riscaldamento e condizionamento dei condomini cioè dei grandi condomini di cui è fatta la città centrale. Dato per assodato che si debba abbandonare il modello della polverizzazione impiantistica per tornare – anche a Roma – agli impianti centralizzati condominiali o di quartiere il nuovo impianto di trattamento dei rifiuti potrebbe essere una leva importante per affrontare anche il tema dell’introduzione del teleriscaldamento nella città di Roma. Non pensiamo solo all’inverno ma anche e soprattutto all’estate e al fatto che quella che è prodotta dalla pirolisi dei rifiuti è energia termica centralizzata che può essere messa in pressione e portata ai quartieri limitrofe per alimentare pompe di calore condominiali che forniscono fluidi a temperatura costante di 20-25°, utili a riscaldare gli ambienti in inverno e a raffrescarli in estate.
In conclusione la soluzione definitiva alla perenne emergenza rifiuti esiste e prevede misure di governance di ampio respiro e polso fermo; informazione, persuasione gentile ma ferma (leggasi fiscalizzazione degli oneri) e controllo; tecnologia quanto basta.
Ma soprattutto tanto tanto grano salis.
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Eurostat, dati municipali sui rifiuti urbani delle principali città europee
Ispra, catasto rifiuti urbani, dati comunali
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